Agit, Sahara, Hazim... e altre storie
D’estate normalmente raggiungono l’Italia circa 700 “immigrati” al giorno. Primo ponte per l’agognato benessere europeo. Un benessere che stiamo cominciando a vedere che non esiste, che non è reale. Che per anni abbiamo “alimentato” con il debito. Debiti mai pagati. Semmai accresciuti con altri debiti. Verso il resto del mondo. Ma qui non cercano la ricchezza economica. Né cercano una più importante: vivere, sopravvivere. Di loro abbiamo bisogno per la nostra economia. Per raccogliere pomodori a 10euro al giorno. Per lavorare nei cantieri edili a 20 euro al giorno. Per lavorare nelle nostre case per – quando va bene – 5 euro l’ora. Per badare ai nostri anziani, portare il cane fuori, pulire, lavare, stirare… nelle nostre case in recessione, economica ma soprattutto morale…
…nell’ipocrisia di chi al riparo della propria posizione oggi si riscopre “antagonista” e scende in piazza per protestare contro i governi “cattivi” – gli stessi che hanno le rendite dei propri appartamenti, spesso fittati al nero, a studenti fuori sede o agli stessi immigrati…
E allora a me che per la terza volta in un mese mi chiedono un “articolo” sull’economia in Italia (articolo che farò – anche se non serve – semplicemente perché non voglio dire a me stesso che non ho scritto quello che pensavo), mi vengono in mente alcune storie, che nessuno mi ha chiesto.
Ma credo che prima di parlare delle cose “grandi” e spesso apersonali, sia necessario “toccare l’odore” della carne e delle lacrime e del sangue delle persone reali.
Poi, il resto, viene da sé…
…e ai nostri pensieri benpensanti sulla nostra crisi economica, ricordo un verso di De André di quarantenni fa “i tuoi aiuto saranno ancora ascoltati”… ma io mi chiedo, se davvero “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”.
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Agit ha una moglie e tre bambini. Oggi, dopo vent’anni in Italia, è cittadino italiano. Paga più tasse lui che mia madre che è insegnante. Imbarcato come marinaio da Cylon, a Napoli è sceso dalla nave senza più risalirci. Questo vent’anni fa. Lo conosco da 17anni. A Napoli viveva in una casa inagibile, inidonea nemmeno come garage perché per metà interrata. E umida. E senza un’apertura che non fosse una porta di ferro. Un’unica stanza con un bagno fatiscente e un fornellino da campeggio. Venti metri quadrati in cui vivevano in sei. Tutti uomini. Tutti di Cylon. Chi muratore, chi cameriere, chi cuoco… La “casa” era di proprietà di un ordine religioso. Affidata come tutto il patrimonio immobiliare a un avvocato. L’ordine non vuole sapere. Solo precisione nella rimessa degli affitti, questo conta. Nessuna spesa per la manutenzione, nessuna verifica delle condizioni reali. L’avvocato L. aveva a Napoli il monopolio della comunità di Sri Lanka. Il fitto era di trecentomila lire – e guai a non pagare. L’avvocato L. è una persona rispettabile. Stimato in maniera direttamente proporzionale ai circoli di cui era socio, e alla lunghezza della sua barca a mare, a Mergellina. Da Agit, che prendeva settemila lire l’ora per fare i servizi di tre case di Posillipo – quattro ore per ciascuna, tutti i giorni – prese quattrocentomilalire per una mezzoretta in cui semplicemente gli diede le fotocopie dei moduli per la questura per la richiesta del permesso di soggiorno e gli spiegò come compilare il modulo… …modulo che compilai io perché lui non ci aveva capito niente di quella spiegazione. Da quel giorno compilai in un mese oltre cento di quei moduli. Piansi quando uno degli amici di Agit mi portò in regalo delle spezie introvabili e gli occhi nel darmele brillavano a lui. Mi perdonerà l’avvocato L. se gli ho fatto perdere quarantamilioni di vecchie lire… ma non credo ne avrà troppo sentita la mancanza… Agit ha una moglie e tre bambini. Oggi, dopo vent’anni in Italia, è cittadino italiano. Paga più tasse lui che mia madre che è insegnante. Ha un negozio di alimentari a Milano, e la mattina porta da casa in ufficio i dirigenti UniCredit, con il suo monovolume Mercedes che l’UniCredit non gli ha finanziato.
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Hazim ha 21 anni. Padre pakistano, ma da sempre in Libia, sei anni fa parte per l’Italia. Non sono pakistano, lo era mio padre. Non sono mai stato libico anche se ci sono nato. Mia madre è palestinese ma la palestina non esiste. Qui fa di tutto Hazim. Dalle ricariche delle cartucce di inchiostro delle stampanti (“voglio stare nell’informatica e comincio dal gradino più basso”), ai traslochi in casa. Si, in uno dei miei traslochi Zami (mio amico palestinese) porta anche lui a dare una mano. A Zami puoi chiedere di tutto, e lui te lo procura. Ma Hazim è stato proprio un bel regalo inaspettato; di quelli che non sai nemmeno chiedere. Hazim sa tutto di qualsiasi religione. Conosce le donne. Ti guarda col sorriso furbo e ti scruta per capire se sei tra i buoni o i cattivi. Gioca a scacchi. E ti chiede che ci fai con quelle cose… Una cosa Hazim la fa in Italia da quando è arrivato: studia. Due diplomi. Ora vuole fare l’università ma, si sente incerto sulla lingua e non vuole fare brutta figura agli esami. Io lo guardo quando mi dice queste cose e sorrido… …e penso alla mia facoltà di giurisprudenza ed a come “prendevano” gli esami i tanti figli degli avvocati L. che non sapevano nemmeno l’esistenza del congiuntivo. Ma non glielo dico. Anche perché Hazim lo sa già…
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Sahara. Non si chiama così. Non so come si chiama. Forse non lo sa nessuno, e lo ha scordato volutamente anche lei. Le sue amiche la chiamavano così. Veniva non si sa da dove, sotto il Sahara. Come apparsa dal deserto, da sola, praticamente nuda. Così mi ha detto Maria. Maria così chiamata dalle altre amiche perché aveva avuto un figlio, ma “senza padre”. Sahara la incontravo tutte le volte che prendevo alle cinque del mattino il regionale che da Savona portava a Torino. Era lì, terza carrozza. Quella che a Mondovì si fermava in mezzo. Dormiva. Saliva a Ceva, la stazione prima della mia. Appena cinque minuti di treno. E lei era già nella terra dei sogni. Per un anno sapevamo della reciproca esistenza dalla semplice condivisione del vagone del nostro regionale. Una mattina si dovette svegliare. Il controllore era nuovo e non la conosceva e l’ha svegliata per chiederle il biglietto. Lei gli porge l’abbonamento. Lui le chiede un documento. Lei gli dà il suo passaporto. Lui dice che non lo capisce e per lui non è valido. Io mi incazzo. Gli dico di mettere per iscritto che LUI non riconosce valido un passaporto. Lui mi risponde in piemontese capendo che io non lo sono. Io lo insulto in siciliano, anche se non lo sono. Lui se ne va. E io e Sahara facciamo colazione alla stazione a Torino. Sahara è stata stuprata a 8 anni dai soldati. Cacciata come impura dal suo villaggio. A dodici anni il primo figlio che muore al parto. Dopo due anni a girare, arriva alla costa e parte per l’europa. Fa la ballerina in un locale a Ceva. Quelli dove gli elettori di Borghezio vanno la sera dalle 23 al mattino a divertirsi. Quando va bene, sono dieci per notte. “Ma il padrone del locale prende solo il soldi, a me da un bigliettino. Nel locale non si può, io sono una ballerina.” Da quel giorno lei sale a Ceva, io a Mondovì. Aspetta di salutarmi con gli occhi prima di addormentarsi. Un semplice sorriso per rassicurarmi. Sono sopravvissuta anche oggi.
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…quanto a Sahara, Hazim, Agit, e i miei tanti amici che sono qui…
Io mi dico che non lo so se “i tuoi aiuto saranno ancora ascoltati”… ma davvero “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”.