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Michele Di Salvo
08 Nov

Appunti sul "mestiere" di editore

Pubblicato da micheledisalvo  - Tags:  Editoria, intercultura, libri, multietnico, Standard

Atti - Giornata di studi sull'intercultura - Napoli 28 Settembre 2006

Io non presento moltissimi libri, anzi, è una cosa che sto facendo sempre meno - penso di averne presentati quattro o cinque -, perché ritengo che i libri vadano presentati dagli autori, dai curatori, dagli “editor”, perché sono loro che materialmente li fanno. Un editore già appare troppo rispetto al lavoro che fa. L’editore appare con il proprio marchio, appare, comunque, con l’essere colui che detiene il “copyright” in un libro, però è anche necessario che qualche volta un editore - che dovrebbe essere una persona che parla soltanto attraverso i libri che pubblica - si impegna un po’ di più per sostenere qualcosa che non sia quel singolo libro, ma che sia un’idea, che sia un progetto più complesso, un progetto più articolato. Una frase che uso spessissimo è proprio la distinzione che faceva Giangiacomo Feltrinelli quando, nel ’58, gli venne chiesto: “Perché un libro va pubblicato?” e lui disse: “I libri che vanno pubblicati sono, sostanzialmente, di due categorie: i “libri utili” e i “libri necessari”.”. Li distingueva come “libri utili” quei saggi, quelle ricerche che erano di immediata utilità, come può essere un manuale, e, poi, parlava dei “libri necessari” a proposito di quei libri, di quei romanzi – e il riferimento era immediatamente al “Dott. Zivago” che in quegli anni lui stava pubblicando – come libri che innescano dei meccanismi sociali all’interno dell’uomo e nella propria capacità di vivere il sociale, quindi una spinta alla collettività. Secondo me, oggi la funzione del libro è cambiata, il libro non è più lo strumento primo della conoscenza, del reperimento delle informazioni. Esistono dei metodi più economici, più immediati che sono Internet e la televisione. Oggi il libro acquisisce una categoria nuova, per rifarci a quelle di Feltrinelli: esiste la categoria dei “libri unici”, dei libri della memoria, dei libri che hanno un senso, perché diventano degli oggetti che testimoniano un lavoro, una presenza, una memoria sociale e collettiva. “In Madrelingua” sicuramente può essere visto in questo modo. E’, anzitutto, un libro che racchiude una storia, che è un progetto in sé, un progetto di studenti che mettono in pratica il loro approccio alle lingue, alle culture e alle letterature straniere, lo concretizzano nel loro quotidiano, nella loro città, ponendosi il problema di una scritta in arabo su un muro chi l’ha fatta, che storia ha, da dove viene, cosa vuol dire, perché ha ritenuto necessario farlo. E, soprattutto, è un libro unico, perché – questo ci tengo a dirlo – è un libro che, in termini di lavoro, è assolutamente impagabile, nel senso che se uno dovesse progettarlo a tavolino e stabilire quanti soldi occorrono per fare queste quattrocento pagine, per raccogliere questo materiale, per tradurlo, per sistemarlo, per farlo diventare un libro, per chiedere una prefazione, per fare un progetto grafico, per avere questa concezione a tavolino: non bastano i soldi e non ci si sta assolutamente dentro. Questo è un libro che si fa – e questo ci tengo a dirlo, perché è un debito profondo, anche se non è un debito monetario -, è un libro che se c’è, se voi lo toccate in mano, è grazie a qualcosa che non è semplicemente lavoro: grazie a qualcosa che si chiama passione. Per ragioni anagrafiche forse sono l’ultima persona che dovrebbe parlare di questo tema, però la passione (mi spiace per alcuni di voi) è qualcosa che appartiene ai giovani e non a caso sono stati dei giovani che l’hanno fatto, l’hanno preso, l’hanno composto, l’hanno fatto crescere. Questa grande passione, mentre da una parte non è comprabile, non è acquistabile – come fai a comprare la passione di qualcuno o a dire: “Per me tre ore della tua passione costano tot”? -, è inquantificabile, dall’altra parte, purtroppo, la passione è qualcosa che troppo spesso è molto facile che muoia, perché non viene coltivata, perché viene umiliata, perché viene chiusa, perché viene racchiusa in regole altre. Penso che questo sia un ragionamento che possa vedere accomunati sia il mondo accademico, che troppo spesso non lascia spazio ai giovani e alle idee nuove, e che riguarda, però, purtroppo, drammaticamente, anche chi fa questo mestiere che è il mestiere della comunicazione, è il mestiere di chi fa i libri, che, invece, troppo spesso, soprattutto nell’approccio dei giovani a questo mondo, al mondo del lavoro, al mondo degli “stage”, al mondo dei corsi, ragiona squisitamente in termini di: “Mi devi fare questa cosa, devi produrre per tot tempo. Dopo di che, possibilmente, te ne vai a casa, perché ne ho altri dieci fuori la porta.”, senza dargli mai la capacità concreta di sviluppare un progetto. Questo è un grande limite che questo settore ha. Devo ammettere che quando questo progetto è arrivato sulla mia scrivania, il mio “sì” è stato non solo incosciente in termini di rapidità con cui l’ho detto, però è stato un “sì” ad un progetto che aveva esattamente questa caratteristica: lascia percepire in ogni singola pagina, in ogni singolo centimetro quadrato di questo libro una grandissima passione alla ricerca di un lavoro impossibile, dalla scelta delle icone grafiche su ogni singola pagina all’indice, che nessuno immaginava. Io penso che l’unico modo per dirvi quello che per me è questo libro non è parlarvene come ve ne hanno parlato loro, perché loro sono quelli che lo hanno fatto, ma di parlarvi da testimone e di regalarvi delle cose che per voi possono essere piccole, possono avere poco significato, ma, in realtà, sono la dimostrazione del lato umano che c’è dietro una pagina scritta, stampata, che resta là e che è un patrimonio prezioso, non è una spesa superflua, perché un libro resta là, resta sugli scaffali, viene passato di generazione in generazione e dimostra ciò: che chi è venuto prima di noi, nella nostra famiglia, nel nostro gruppo, in qualche modo ha passato come sapere comune da condividere. Questo è un libro, molto più di qualunque altro strumento della cultura. Io vorrei regalarvi delle piccolissime immagini, sicuramente non ci riuscirò, però questo libro è fatto delle E-mail di Eleonora – che è la fidanzata di Francesco – il 12 agosto, mentre era in vacanza in Calabria, da un Internet Point per rivedere le traduzioni. Questo libro è fatto delle “e” con apostrofo che poteva sembrare accento corretto da Silvia in, tipo, duemila correzioni su tutto il volume. Questo libro è fatto del testo in Indi arrivato due-tre giorni prima di trasmettere il “file” ed è fatto di Silvia che, una volta che lo aveva chiuso completamente, si è messa lì alle due di notte, alle tre di notte, dovendo consegnarlo la mattina alle otto, a ripulire le immagini, una per una, perché si leggesse meglio il disegno. Questo libro è fatto di Francesco Vietti che scrive dalla Moldavia, perché doveva finire la tesi di laurea di secondo livello, per correggere e per mandare altre indicazioni e per segnalare errori. Questa Mail è fatta di telefonate anche alle undici di sera, per parlare di questo progetto e di capire come doveva farsi, tutto d’estate. Come faccio a farvi comprendere cosa è l’incontro con Chen Li per cercare di vedere che tipo di tratto, che tipo di disegno, che tipo di carattere, che tipo di impostazione grafica dare al volume? Io, però, sono assolutamente convinto di una cosa: i progetti che si portano avanti da soli, i progetti fatti da una persona, da un autore, che restano lì sono dei progetti che non possono neanche essere definiti dei progetti. Prima Silvia ha parlato di che cosa è una Collana. Certo, una Collana è fatta di tanti libri e parla attraverso di loro, però una Collana è anche una strada, un fiume nel quale tutti gli autori, tutte le persone, tutti i curatori, tutti i traduttori, tutti i revisori, tutti gli “editor” decidono di prendere una direzione comune: decidono di lanciare un messaggio, decidono di costruire un progetto. E non esistono progetti che si portano avanti da soli, esistono solamente dei progetti che, se vogliono vere un futuro, se, come un fiume, in qualche modo, vogliono avere il loro sbocco al mare e non diventare un pantano, devono essere fatti di sinergie, di incontro, di persone, di collaborazione, di apertura, ognuno nel suo specifico. E a me è ancora più gradito il fatto che, nonostante forse un Professore universitario, categoria a sé nell’immaginario, nonostante fosse un Direttore di Collana per un altro editore, veramente con una passione, con una semplicità unica, il Prof. Gnisci abbia deciso di regalarci questa prefazione, perché è un ennesimo pezzo di un ennesimo dono a questo libro. L’esserci, il farne parte è il dimostrare che, in un certo momento, in una certa redazione, una serie di passioni, di storie diverse e di strade diverse si sono incontrate ed hanno fatto un mattone in comune di quella che può essere un casa o può rimanere un mattone. Prima si faceva riferimento al mare. Questo fiume, qualunque dei nostri fiumi, sfocia nel Mediterraneo, questo mare che ha delle contraddizioni immense, incontra una varietà di popoli che nessun mare incontra contemporaneamente, neanche i più grandi oceani. Io credo che l’appartenere a questo mare debba essere per noi anche un impegno ed uno stimolo a che questo mare geografico – proprio perché è fluido – ci dia l’obbligo di incontrarci e di confrontarci e ci stimoli in questa direzione, ma non come un fatto velleitario - se voglio, lo faccio -, ma proprio come un fatto che deve essere per noi un obbligo: se siamo qua, se abbiamo queste condizioni, se siamo in questa posizione geografica, a noi compete porre fine ad una serie di conflitti. E per porre fine a questa serie di conflitti, si passa attraverso il dialogo e l’incontro, non si passa attraverso nessun altro strumento, che la storia dell’uomo dimostra: la guerra non è uno strumento che risolve i problemi, non li ha mai risolti, semmai li ha creati. Questo strumento, questo libro è anche questo: un grandissimo senso di comunità, di unione di persone diverse, di provenienze diverse, di lingue diverse, di alfabeti diversi che fanno una cosa assieme. Se, in qualche modo, questa cosa assieme l’hanno fatta anche grazie a noi, ne siamo contenti. Tutto qui.

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