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Michele Di Salvo
08 Nov

Cari compagni... (work in progress)

Pubblicato da micheledisalvo  - Tags:  Compagni, King, Mario Rigoni Stern, McCarty, Pci, pd, Politica, Standard, socialista

"Cari compagni, sì, compagni, perchè è un nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino "cum panis" che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l'esistenza". (Mario Rigoni Stern)

Si chiama “adeguamento semantico”.

È il lavoro più difficile per chi si occupa della “tecnica della comunicazione”, ed anche però la parte più affascinante di questa “disciplina”.

In pratica si tratta di “accompagnare” l’uso delle parole attraverso il cambiamento dello “scenario” e attraverso i suoi significati e significanti. Adeguandola a realtà che cambiano e si trasformano.

Prendiamo la parola “dream” – il “sogno”.

Che negli stati uniti è passato dall’indicare la conquista dell’ovest, all’indipendenza delle colonie, fino a indicare la “via” per uscire dalla crisi del ’29, poi essere la “bandiera” dello sviluppo della potenza americana nel mondo (american dream 1), il manifesto delle battaglie per il riconoscimento dei diritti civili (american dream 2 – nell’indimenticabile discorso di M. L. King) fino al sogno dei migranti di tutto il mondo a ricerca del “sogno americano” (american dream 3) e della new-economy, e del “tutto possibile” (american dream 4)…

Questi “passaggi semantici” – ormai storicizzati – non sono stati senza “ferite”.

Basti pensare che il famoso senatore McCarthy attribuiva a chi usava la parola “dream” l’etichetta di “comunista” e la bandì da ogni suo discorso e atto della sua famosa commissione, o alle polemiche della stampa conservatrice nell’uso fatto da King, che venne definito “blasfemo”.

Ciò avveniva nella società considerata “di massa” per eccellenza e là dove – più che in qualsiasi paese della “vecchia” Europa dove è nata – la stessa libertà di stampa e i principi della comunicazione “totale” sono elementi fondanti della società.

Questo, come altri processi semantici su altre parole (si pensi alla stessa “libertà”), è ormai storicizzato ed accettato, e appare “naturale” e quasi “normale”.

Nelle società meno massificate, e con un “lessicario” più ampio, il lavoro dei tecnici della comunicazione si fa più complesso, proprio per le molte sfaccettature che la pubblicistica aiuta a creare attorno alle parole, e alle loro declinazioni.

L’accompagnare le parole attraverso le trasformazioni sociali non è semplicemente una operazione di restiling o di trasformismo sociale, che spesso viene letto esclusivamente in un’ottica politica.

Si tratta infatti della più complessa operazione di rideclinare i concetti “unificati e significati” dalla parola usata per indicare ciò che è oggi, nascente da ciò che era ieri.

Perché le parole non sono mai né buone né cattive. Lo diventano. Soprattutto quando ce ne si appropria (spesso impropriamente) o peggio quando ce le si lascia “rubare” da una sola parte.

In una società “normale” e sana, parole come libertà, democrazia, sociale, società, paese non possono essere “di parte” e se lo sono o lo diventano, è di per sé questo un indice di patologia.

E solo per fare un esempio, è l’effetto di parlare di “rinascita democratica” in Italia – che se semanticamente è qualcosa di sempre vivo e auspicabile –diventa un accostamento semantico “tabù” essendo queste due parole, nel nostro Paese, il titolo del progetto golpista ordito da Licio Gelli.

Così, è ad esempio per una parola come “compagni”.

Nei “democratici di sinistra” che si stavano per sciogliere nel partito democratico la riflessione tenne banco per mesi.

In realtà un pretesto incolto, semplicemente attribuendo all’uso della parola “compagni” (in uso nel PCI) il “vecchio” da sostituire. E identificando in “altri modi per chiamarsi” il “nuovo”, la trasformazione.

Non solo nel Pci e nelle sue dirette emanazioni ci si chiamava "compagni".

Socialisti e radicali continuano ad utilizzare il termine. Stessa cosa nella Cgil.

Negli anni '70, oltre che nella sinistra extraparlamentare, anche i cattolici più progressisti della Cisl utilizzavano il 'compagni', creando malumori diffusi dentro il sindacato "bianco".

Nella Dc, infatti, vigeva l'uso di "amici".

Era il 20 giugno 2010 quando l’uso di questa parola in una assemblea del Partito Democratico provocò un putiferio mediatico.

Dentro il Pd, attualmente, ognuno fa un po' come gli pare. Bersani, ad esempio, preferisce il "cari amici e cari compagni". D'Alema, a suo tempo, disse che non avrebbe mai rinunciato al termine. Prodi non lo disdegnava, mentre Veltroni tagliò la testa al toro con il "cari democratici".

"Cari compagni, sì, compagni, perchè è un nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino "cum panis" che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l'esistenza". (Mario Rigoni Stern)

Secondo me la questione non sta nel nome, nella parola, ma in quale significato essa oggi debba avere, e cosa “accomuni davvero i compagni”.

In un mondo in cui dagli anni ottanta ha trionfato il carrierismo e il rampantismo, in cui ogni ambito sociale (sindacale in primis) si è trasformato in luogo da cui fare una carriera personale, in cui tutto si è trasformato in mercato (con le dovute eccezioni che evidenziano solo la regola ancor di più), questo termine ha perso la sua caratteristica storicizzata e appare legato a una situazione contingente e momentanea.

Il suo uso appropriato è quello legato alla vita scolastica, o alla pratica di uno sport, nella vita militare, nella condivisione di una degenza, di un viaggio, e poco altro.

Un po’ come la trasformazione semantica del “sogno americano”, in cui oggi non ha senso parlare della conquista dell’ovest, oggi anche la precarizzazione impedisce una “compagnia” nel mondo del lavoro, che è stato ben sostituito come termine da “colleganza” proprio negli anni ottanta e novanta, ed in un mondo sempre più fatto di autonomie professionali, largamente intese, si adotta la “partnership”.

Del termine socio-politico della "vecchia parola" compagni resta poco.

E non di meno non è una parola che va dimenticata o abbandonata.

Né è semplice nostalgia, o desiderio di “resurrezione”.

Le polemiche sul suo uso sociali sono semmai il sintomo di qualcosa di profondo.

Di un bisogno.

Quel bisogno primario dell’uomo, soprattutto nei momenti di maggiore criticità e difficoltà, di non “restare solo” nella sua condizione, e di vivere e convivere “stretto” con altri che ne condividono ansie, angosce e situazioni contingenti.

In questo senso, la parola compagni oggi ha un valore di uso, nella misura in cui ne si premette la “temporaneità”, si lascia andare via il senso di “durevolezza” e la si collega esattamente alla situazione/luogo/tempo in cui si… ciascuno… trova dei compagni con cui “dividere lo stesso pane” (nel senso anche metaforico di “condivisione della situazione esistenziale”).

C’è una frase, che può sembrare buttata lì per provocazione, che Ilda Curti – esponente del PD - ha usato qualche giorno fa - come provocazione e battuta - “Compagni! No, fa troppo '900. Amici! Uhm, fa troppo scout. Soci! Ma mica siamo in un CdA. Partners! Bah..impegnativo. Semplici conoscenti! Ecco: semplici conoscenti e conoscente! Già conoscersi è un orizzonte rivoluzionario…”

Credo sia più ricca di significati e significanti di molte cose dette dai tecnici della comunicazione.

In questa frase c’è la ricerca del luogo sociale di uso della parola compagno, e la richiesta di un significato ponte che accompagni questa parola nobilissima e impegnativa nella società della comunicazione interattiva moderna, in cui ci si scambiano informazioni e ci si confronta, senza alle volte nemmeno intaccare quell’orizzonte rivoluzionario della “conoscenza”.

Il problema non è mai la parola.

Le parole non sono né buone né cattive.

È l’uso strumentale e fazioso che ne costituisce la nota stonata.

E la modernità, se così vogliamo chiamarla, non sta nel cambiare parola, ma in quello sforzo maieutico di declinarne un nuovo e più autentico significato.

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