Le ansie e le dipendenze dei “figli”
Secondo Freud il primo “momento di ansia” è quello legato al momento del parto.
Uno “stress” emotivo completo ed articolato che implica per il bambino la prima traumatica determinazione di cambiamento e trasformazione.
Quello stato di “ansia” non riguarda solo la componente emotiva (che ancora di per sé non è formata seppure “esiste”) ma lo avvolge a livello chimico, elettrico, sensoriale, percettivo, cognitivo.
Da questo “momento” inizia la sua “emotività” – intesa come sintesi di un complesso di emozioni e percezioni; il come la nostra vita di “ansie” ed emozioni verrà vissuta dipende essenzialmente da quel momento.
Da come la madre avrà vissuto emotivamente il parto, da come ci sarà arrivata, dal suo stato di ansia e da come l’avrà vissuta, e quindi da come e cosa avrà trasferito attraverso il cordone ombelicale e la placenta al feto.
Da come poi il feto, avrà percepito, metabolizzato, assorbito e vissuto, la sua ansia e la sua “amniotica emotività”.
Sappiamo ad esempio della stretta correlazione tra patologie come asma e claustrofobia, legate al vissuto delle ultime fasi pre-natali.
Sappiamo però anche che se vi è una origine di questi “stati di vivere la vita”, gli stessi possono essere affrontati e superati, partendo dal presupposto della consapevolezza, e dalla volontà di superarli, intanto individuandoli come “problemi che vogliamo risolvere” e non da “stati e dati di fatto” ineluttabili.
Prima di entrare nella dimensione di “paternità/maternità attiva” (ovvero l’essere e diventare noi genitori a nostra volta) dobbiamo riprendere la consapevolezza della nostra “paternità/maternità passiva” (ovvero l’essere noi figli a prima di tutto).
Prendere atto di quella che era la realtà ed il contesto culturale e genitoriale della generazione dei nostri genitori, le loro ansie, la maternità delle nostre madri spesso in contesti di coppia “non sereni” aiuta a comprendere due fenomeni che oggi troppo spesso sottovalutiamo e che invece sono all’origine delle nostre ansie e del nostro modo di viverle ed affrontarle… e spesso non superarle.
Negli anni sessanta e settanta le nostre madri avevano il matrimonio come unica via di emancipazione familiare; questo portava a matrimoni “veloci” e legami spesso portati avanti per ragioni valoriali più che di consolidato legame affettivo.
Anche con la legge sul divorzio (che ne ha vista una vera esplosione), la società, il tenore di vita, la cultura, il bon-ton, hanno spesso portato a preferire una “separazione coniugale interna” alla coppia, più che una più vera, autentica, coraggiosa separazione di fatto formale.
Questo “sistema” ha portato in sé ad un “trasferimento” delle ansie materne direttamente ai figli, in un contesto di vissuto “violento”, troppe volte nemmeno esternalizzato di una vera e propria violenza fisica, ma concretizzato in una violenza psicologica e di meccanismi di dipendenza affettiva sempre più forti e traumatici in proporzione alla crescita dei figli, il quali, essendo l’unico collante domestico ed al contempo “cuscini” tra i genitori, dovevano in ogni modo essere “trattenuti” all’interno della famiglia, disincentivandone l’emancipazione in qualsiasi modo e forma.
Ed ecco che l’ansia vissuta al momento del parto, un’ansia “giusta” e formante, maieutica, legata al momento della rivoluzionaria “apertura polmonare”, al momento del respiro, dell’ uscita dalla placenta e dal “taglio” del cordone ombelicale, viene accompagnata non già dal momento della vita indipendente, e dalla certezza della sua possibilità, quanto dalla insicurezza e fragilità della nuova dimensione, in realtà fragilità ed incertezza solo del ruolo genitoriale.
Questa ansia accompagnerà ogni momento della vita del bambino.
Ad ogni suo dubbio, non si risponderà spesso con la sfida della scoperta positiva della vita esperienziale, quanto “chiudendo” in un guscio protettivo; quasi un ritorno fetale.
L’ansia non verrà affrontata con il rinnovo dell’esperienza del respiro, ma con la chiusura, affettiva ed emotiva di fronte all’incertezza.
Ma se questa lo stato d’ansia tuttavia genera delle dipendenze interne, ormonali e chimiche, nella stimolazione della secrezione degli “antidoti naturali” alla sensazione di sofferenza, se non di dolore.
Dipendenza da dipendenza potremmo dire.
Dipendere da uno stato di ansia per produrre sempre più anestetici emotivi.
Un po’ come i masochisti che non dipendono dal dolore, ma dalla auto secrezione di serotonina, adrenalina ed endorfina, lo stato perdurante di situazioni di ansia autoalimenta se stesso, perché senza i suoi anestetici on sapremmo sopravvivere al “mondo che sta fuori” con tutti i suoi rischi e le sue incertezze, dovuti solo alle nostre non consapevolezze.
Ed ecco che la nostra generazione è di fatto la generazione delle dipendenze.
Alcol, caffè, cioccolata, zuccheri, sigarette, reddito, posizione, gioco, shopping, griffe, oggetti, droghe, medicine, psicofarmaci, internet, ipercomunicazione virtuale, abitudini.
Ognuna di queste dipendenze umane è un sostituto fisico di una mancanza affettiva, che di per sé è in realtà mancanza esperienziale di soluzioni differenti al modo di vivere le nostre ansie.
Perché nessuno ci ha insegnato un modo differente.
Perché tutto aveva interesse a che “dipendessimo” e vivessimo e condividessimo uno stato ansioso ed ansiogeno a sua volta.
Perché attraverso una qualsiasi di queste dipendenze, è esercitabile e rinnovabile quel controllo dipendente del cordone ombelicale.
Andare quindi all’origine della propria ansia, entrare e chiedere conto del momento della propria nascita, e scegliere di vedere e analizzare le proprie dipendenze, significa porsi autenticamente nella condizione di cambiare il nostro approccio alla nostra ansia, superarla senza anestetici, sostituire la dipendenza con la risposta al bisogno sottostante.
Ed è questo lo sforzo che viene richiesto alla nostra generazione.
Perché se il bambino resta troppo a lungo legato al cordone ombelicale, non solo non cresce, ma comincia a morire, e se non è la madre a decidere di tagliarlo, tocca al figlio farlo, a qualsiasi costo, per evitare di morire e, inevitabilmente, uccidere anche la madre.
Solo in quel momento avrà un senso compiuto la scelta di una “paternità/maternità attiva” (ovvero l’essere e diventare noi genitori a nostra volta).