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Michele Di Salvo
08 Nov

Perchè siamo e saremo tutti Pomigliano D'Arco (22 giugno 2010 - HBSRev)

Pubblicato da micheledisalvo  - Tags:  accordo, CGIL, Economia, Fiat, lavoro, Politica, Pomigliano, Standard, Sindacato

Pubblico qui un articolo appena “chiuso” [come se certe cose potessero essere “chiuse” davvero] che mi è stato richiesto da una rivista economica. Ne sono lusingato. Chiedo scusa per qualche tecnicismo. Qualche volta certe cose appaiono finanche disumane. Preciso che la mia analisi non voleva, né poteva, essere né sociale, né politica, ma solo economica. Nondimeno non ce l’ho fatta. Per dovere di completezza. Vi prego di accogliere questa “cosa” con benevolenza. …e con tutti i limiti che ha…

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Comincio subito con il chiarire che non è possibile valutare la proposta di accordo su “Pomigliano” solo economicamente. Questo intervento, per come mi è stato richiesto, sarebbe sbagliato, se così lo facessi, anche da un punto di vista tecnico economico. Da un’analisi puntuale della proposta sintetica della FIAT appaiono chiarissimi infatti i sacrifici che vengono richiesti ai lavoratori. Prevalentemente in termini di orario, di opportunità di salario, di ridimensionamento di alcuni permessi.

Le premesse sono essenzialmente due, da parte dell’azienda.

1. Aumentare la produttività dello stabilimento con minore occupazione (la misura è chiaramente indicata ad esempio nono solo nell’aumento della turnazione settimanale – ma rilevante è in particolare la possibilità richiesta di passare da 40 a 120 ore di straordinario). In tale direzione l’effetto immediatamente rilevabile è che non solo l’azienda con questa scelta taglia e blocca i livelli occupazionali, ma soprattutto indica strategicamente che non intenderà – anche in caso di aumento della produzione e della domanda di mercato – ricorrere a nuove assunzioni, preferendo aumentare gli straordinari. Misura per altro da bilanciare tra operai “diretti ed indiretti”.

2. Il ridimensionamento di fattori considerati “patologici” di assenteismo – tra questi i permessi elettorali (che l’azienda ha stimato in ben 1800) e che definisce testualmente “tale da compromettere la normale effettuazione dell'attività produttiva” – e il ricorso “patologico” apparentemente immotivato alla “malattia” – pare di oltre il 110% superiore alla media di altri stabilimenti. Le misure richiamate sono molteplici – e si rinvia in proposito alla lettura integrale del testo.

Se in questa sede consideriamo pertanto queste due esigenze aziendali, teoricamente nel quadro di miglioramento ed efficienza della produzione, le misure indicate sono necessarie e funzionali. Questo tenendo conto anche di una duplice garanzia. I forti investimenti previsti per l’ammodernamento dell’impianto, dovrebbero garantire una logica di medio-lungo periodo di stabilità produttiva nelle intenzioni dell’azienda. La massimizzazione della produttività – per unità e per stabilimento – offre garanzie sufficienti di una continuità stabile del lavoro che si ha intenzione di localizzare nell’area. Questo a vantaggio dell’occupazione indicata e dell’indotto.

Un’analisi microeconomica dell’impatto di un progetto industriale però deve considerare più fattori – tra cui l’impatto sociale e del quadro normativo. Marchionne è un manager “con l’azienda in testa” – che quando pensa a FIAT in realtà pensa la FIAT – e in questo è esattamente l’uomo giusto nel momento giusto… [come lo era stato in UBS – che non a caso è stato tra i grandi istituti di credito tra quelli che hanno meno sofferto l’eccessiva finanziarizzazione dell’attività creditizia] c’è da chiedersi se sia anche “nel posto” giusto però. Perché un’azienda deve anche ragionare in termini di gestione della comunicazione delle proprie decisioni.

Se infatti lo stile Marchione che con familiarità ha un suo stile – anche di abbigliamento – quando presenta le trimestrali ha una sua precisa ragion d’essere – e comunica dinamismo, lavoro, attività, poco formalismo… …lo stesso stile non può essere accettato quando in una visione certamente globale che deve avere il massimo manager di un certo tipo di azienda parla con i lavoratori di casa sua.

Marchionne dimentica che FIAT è quella che è per le acquisizioni a “poco prezzo” dell’Alfa Sud (ovvero Pomigliano) e il cui mantenimento è costato in venti anni poco meno di attualizzati 220mln di euro – e per lo stesso stabilimento oggi FIAT chiede altri complessivi 45mln. Che la FIAT ha costruito Melfi con contributo statale stimato pari al 145% di quanto non abbia investito FIAT. Che Termini Imerese ha reso complessivamente a FIAT il 435% di quanto investito. Queste cose un amministratore delegato del secondo gruppo industriale dopo Eni – e leader di un comparto che in questo Paese conta complessivamente circa 1mln di occupati – non le può dimenticare: soprattutto se prosegue l’idea di Giovanni Agnelli che intendeva FIAT come una “istituzione” del Paese.

In un quadro complessivo, la dirigenza di FIAT deve difendere – anche nell’interesse di tutti i lavoratori di FIAT Group nel mondo – circa 420mila – non solo una quota/marchio deve raggiungere un obiettivo importante: 6mln di veicoli prodotti l’anno. Se non ci riesce con le acquisizioni “possibili” lo deve fare attraverso l’incremento della produttività – stabilimento per stabilimento se necessario. Via più lunga – più onerosa – più lenta – ma possibile. Ma nella sua visione globale FIAT deve tenere conto delle tipicità della storia – anche sindacale e sociale – di ogni singola realtà non solo nazionale ma anche regionale. Non partire da questo – è miope – ed economicamente sbagliato.

Quello che FIAT però non dice è un dato analitico più complesso. Se “sospende” Termini Imerese. Se Torino è stabilizzata sulla sua produzione. Se Melfi e Pomigliano vanno a piena produttività. E se questo avviene quando in 5 anni la produzione mondiale di auto ha subito una contrazione del 35%... …se la domanda dovesse crescere – come pare sia nelle stime – queste auto, FIAT dove intende produrle?

Il nodo economico è esattamente questo. FIAT produrrà in Italia solo il fabbisogno stretto per la domanda nazionale ed al massimo un 10% fisiologico per le esportazioni. Tutto il resto verrà localizzato fuori. Attraverso una competizione sempre maggiori su fattori di costo. Tra questi: sicurezza, orari di lavoro, salari, premi di produzione, formazione, turnover. [Ma qui entrerebbe in gioco un’analisi macroeconomica che non compete a questo articolo. Ne accennerò alla fine, per completezza.]

Il problema della comunicazione è così centrale che anche i nodi relativi allo scontro sociale vengono estremizzati per “difetto”. Alla mancanza di chiarezza degli obiettivi dell’azienda, le posizioni sindacali appaiono radicalizzate ulteriormente per il non dichiarato scontro interno alla stessa GCIL. I numeri e le quote di FIOM all’interno del maggiore sindacato – da sempre determinati elettoralmente – sono sul piatto della bilancia, un piatto dove sulla pelle di un accordo sindacale “teoricamente locale” si cercano di regolare importanti conti interni e modificare posizioni di forza tra gli stessi sindacati (a tutto vantaggio delle posizioni aziendali – che chiaramente alimentano le divisioni anche proponendo accordi separati).

Il punto di maggiore rilievo appare esattamente questo. Se ridimensioniamo infatti il problema FIAT (parliamo infatti di 6,000 lavoratori circa e di uno stabilimento soltanto) e guardiamo il comparto nel suo complesso, appare chiaro che in gioco non è il futuro di quei lavoratori, di quell’indotto e di quell’area. Si cerca di forzare – si badi con un accordo che comunque sarà necessario e quasi tecnicamente inevitabile – per mettere in discussione i rapporti di forza interni alla linea del maggiore sindacato italiano. Con questo significa inevitabilmente spostare la politica dell’opposizione parlamentare. E questa “forzatura” – che chiude l’epoca della concertazione immaginata da Ezio Tarantelli (non a caso ucciso dalle BR per aver dato forza al dialogo sociale ed agli strumenti di analisi economica a disposizione dl sindacato) – di fatto precarizza la negoziazione di tutto il comparto metalmeccanico e si estenderà necessariamente anche agli altri settori industriali.

Qui però necessita un raffronto. Non dimentichiamo che proprio FIAT è stata “sconfitta” propri su questo terreno dalla forza e presenza politica tedesca nella trattativa OPEL. Laddove in ultima analisi il governo tedesco – che in virtù di quanto dato ad OPEL ne ha conservato una golden share importante – seppur non è entrato nel merito dell’offerta economica e della prospettiva finanziaria – non ha inteso cedere sul terreno della negoziazione della qualità del lavoro e delle prospettive occupazionali (esattamente quello di cui un governo nazionale e locale dovrebbe interessarsi e tutelare).

FIAT pertanto, nel suo perseguire un approccio certamente finanziariamente corretto rispetto agli obiettivi prefissati (che se saranno raggiunti, non lo dimentichiamo, certamente saranno un bene anche per i lavoratori di FIAT Gruop), non può negoziare questi obiettivi se non con incentivi e investimenti formativi e di innovazione anche di carattere pubblico. Entrare in dinamiche di “ricatto” globale è una linea che intanto può percorrere inquanto in presenza di una assoluta debolezza istituzionale e sindacale di questo Paese. Se così non fosse, alla prospettiva di produrre all’estero, un qualsiasi governo potrebbe opporre misure dirette e drastiche che renderebbero antieconomica una scelta simile. [potrebbe agire ad esempio attraverso la revoca dei fondi per l’innovazione, la sospensione dei crediti di imposta, il blocco degli ordini diretti, il non rinnovo di strumenti di intervento straordinario, il blocco di operazioni di cartolarizzazione… tutto questo nel rispetto delle norme europee e senza ricorrere ai sempre possibili dazi doganali per la produzione extraeuropea]

Resta la considerazione che speravamo acquisita ormai dopo la ancora presente crisi finanziaria, e cioè che la riduzione dei costi della produzione deve necessariamente passare dall’innovazione e non certo dall’abbattimento del costo del lavoro strutturale. Peggio, non può passare una negoziazione sindacale dal piatto del ricatto della delocalizzazione. Questo, fermo restando l’obbligo per FIAT di ragionare in termini globali.

Certamente affermare che “gli operai scioperano per vedere la partita” è un passo falso, anche economicamente, dal momento che chi sciopero ha una decurtazione in busta paga, e che questa partita a quei lavoratori sarebbe costata davvero cara. Altrettanto le mancate scuse sottolineano proprio le debolezze delle controparti “politiche”. E nondimeno proprio questo episodio – decisamente offensivo – è un’ennesima occasione persa per FIAT che avrebbe invece ben colto un’occasione di “politica interna nella gestione delle risorse umane” nel dimostrare la propria affezione ai propri lavoratori e al Paese che tanto ha dato a FIAT ad esempio consentendo semplicemente dei maxischermi in azienda… Non sarebbero state due ore di minor produzione di uno stabilimento considerato in ridimensionamento a creare danni maggiori di una “battuta infelice”.

Di certo, sino a quando su un'unica partita contrattuale verranno messi in discussione fattori che poco c’entrano con quella reale situazione, con quelle famiglie, con quell’area, difficilmente potrà essere chiaro il problema da affrontare e risolvere. Perché dietro ogni soluzione ci saranno sempre altri interessi in gioco. E questo non è un bene. Né per l’economia, né per l’azienda, né – soprattutto – per i lavoratori chiamati a decidere sul proprio futuro. Peggio ancora quando si parla di eccesso di privilegi sindacali in danno alla produzione, e poi si “usano” alcuni sindacati per contrastarne altri. Qui, si perde di ogni credibilità e serietà.

per il testo della proposta di accordo si rinvia a http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-06-16/testo-accordo-fiat-pomigliano-130900.shtml?uuid=AYhDg4yB

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C
[...] la cgil, e la questione e’ presto risolta, basta leggere la mia nota su “perché siamo e saremo tutti pomigliano” per chiarire il mio pensiero [...]
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