Il populismo delle inutili liberalizzazioni
Una delle “ricette ricorrenti” per promuovere – si dice – lo sviluppo, è quella delle cd. liberalizzazioni.
Dietro questo termine, che oggettivamente suonerebbe anche molto bene, si declinano concetti molto diversi tra loro, che è bene approfondire.
Il concetto dovrebbe riguardare tutti quei settori economici e quelle professioni che in qualche modo e con vari strumenti risultano “chiusi” o comunque ad accesso limitato.
Facciamo qualche esempio: le licenze dei taxi, che ogni comune “concede a numero determinato”, tipologie di vendita di prodotti specifici, ad esempio i medicinali nelle farmacie, anche queste “a numero chiuso determinato sulla base degli abitanti/utenti”, professioni come quella notarile, etc… o servizi, come quello del trasporto ferroviario, piuttosto che della erogazione di acqua, energia elettrica, trasporti pubblici, e tanto altro.
Spesso quando si parla di liberalizzare questi settori e queste professioni, si sente parlare di “lobby”, quasi che l’opposizione ad una indiscriminata apertura debba essere necessariamente associata alla difesa di un privilegio. Nel nostro costume nazionale, ovviamente, chi vuole liberalizzare sono i “i buoni” e chi vi si oppone sono “i cattivi”. Proviamo a fare un ragionamento “laterale” a questa visione manichea.
Il concetto di liberalizzazione, inteso come “apertura”, di per sé, è un’idea sana, laddove si intende pari opportunità di libero acceso ad una professione, rispettando alcuni requisiti minimi essenziali: un notaio quanto meno deve essere laureato in giurisprudenza, un medico in medicina, un tassista avere la patente di guida, e via discorrendo. Se quindi si parla di liberalizzazioni in termini di una sempre maggiore trasparenza e facilitazione nell’iter di accesso, premessi determinati requisiti, credo che nessuno, nemmeno i “rappresentanti delle categorie interessate” vi si opporrebbero, nell’interesse stesso della categoria.
Tuttavia intesa in questi termini, queste “nuove prassi” dovrebbero riguardare qualsiasi categoria professionale il cui accessi sia concorsuale, e quindi anche la magistratura, le carriere universitarie, ed in generale tutti i cd. incarichi pubblici. L’illusione è che consentendo liberamente, e senza limitazioni quantitative, l’accesso a certe professioni si crei sviluppo, occupazione e, semmai, abbassamento dei prezzi al fruitore finale. Il tutto, condito da argomentazioni spesso populiste, che descrivono invece certi professionisti come difensori e detentori di una posizione di privilegio economico che “non vogliono condividere”. In realtà la polemica sulle liberalizzazioni è strutturalmente finta, e tesa solo a non far emergere che non si sa che fare davvero per dare soluzioni vere alle situazioni di ristagno o di recessione economica.
Una professione cd. “liberalizzata” è quella dell’avvocatura; negli anni abbiamo come paese generato il maggior numero di avvocati d’Europa, solo in Campania abbiamo più avvocati dell’intera Francia… lavorano tutti? Arrivano tutti “decorosamente” alla fine del mese? Forse che con questa libertà di accesso alla professione forense fare una causa in Italia costa meno che nel resto d’Europa? Semmai il contrario. Non solo ha costi maggiori, ma il fenomeno ha generato una tale mole di processi (quattro volte quelli della Francia, per restare nell’esempio) con una tempistica tre volte maggiore rispetto alla media europea. Se anche raddoppiassimo il numero dei taxi in una grande città (operazione che si può fare con una semplice delibera comunale, senza un gran parlare di liberalizzazioni) forse che aumenteremo davvero anche il numero di coloro che usano il taxi? O non dimezzeremo solo l’incasso del singolo operatore?
Altro ragionamento riguarda invece settori economici specifici, come i trasporti, l’energia, la telefonia… settori “ricchi” in quanto rispondono a esigenze primarie e irrinunciabili delle persone, in qualsiasi congiuntura economica. A ben vedere però il problema non riguarda “il settore in sé” ma su quale fascia di mercato un eventuale operatore “nuovo” deciderà di orientare la sua offerta.
Un esempio lo stiamo verificando in questi giorni con l’apertura del mercato dei servizi di trasporto ferroviario. L’86% del “pubblico” di viaggiatori del nostro Paese viaggia per tratte inferiori ai 100Km e normalmente su “trasporto pubblico regionale” (i cd. pendolari). Le tariffe su queste tratte e per questa utenza sono tuttavia “calmierate” attraverso contratti di servizio con gli enti locali interessati, e peraltro hanno di per sé una tariffazione “a bassa marginalità” (nel senso che gli eventuali utili non dipendono dal ricavo sul singolo biglietto ma dalla somma di elevate quantità d viaggiatori). Questa dovrebbe e potrebbe essere una risorsa, tuttavia per diventare tale sarebbero necessari elevati investimenti sul “materiale viaggiante” (carrozze) e sulla qualità del servizio (pulizia, numero di vagoni, numero e fasce orarie dei treni). Si preferisce – e su questo sono impegnati anche gli operatori privati ed esteri – direzionare la propria offerta e quindi i propri investimenti – sul restante 14% (e solo su quello), ovvero la cd. fascia di utenza ricca, su tratte medie e medio-lunghe e con un certo tipo di servizio ad alto plusvalore.
Il vero nodo in un’economia “in sofferenza” non è quello di allargare i possibili professionisti o operatori. Si creerebbe solo una diversa distribuzione dei margini di guadagno, che quasi mai si concretizza in maggiori benefici per la collettività, anzi spesso solo in impoverimento degli operatori “attuali”. Il vero nodo è fare in modo che “quel mercato cresca” – ovvero che ci siano più risorse a che le persone prendano un taxi, piuttosto che viaggino dippiù (per tornare agli esempi fatti). Non ha senso liberalizzare, se non si va nella direzione, prima, di “allargare” il mercato che si vuole liberalizzare. Dare l’illusione ad un giovane di avere accesso ad una professione, indurlo ad investire (semmai indebitandosi) per poterla fare, senza che davvero e concretamente questa dia sbocchi di sussistenza, è un film già visto, che genera solo altro impoverimento.