L'irresponsabilità - il grande male del piccolo paese
Sono decenni, o sarebbe meglio dire da sempre, che in questo Paese “i problemi” si trasformano irrimediabilmente in “crisi profonde”. O meglio, dovremmo ammettere che noi, come paese, riconosciamo “un problema” solo quando arriva a dimensioni macroscopiche che non possiamo che affrontare con sforzi “straordinari”. Sono decenni, o sarebbe meglio dire da sempre, che in questo Paese “i problemi” si affrontano con l’idea in parte malsana e spesso populista, della necessità di profonde riforme – un po’ come se alla fine la responsabilità non fosse dei cittadini di questo Paese, ma di una qualche norma, o di un qualche sistema che “non funziona o no ha funzionato”. O meglio, dovremmo ammettere che noi, come paese, invece di affrontare un problema partendo da ciò che non va in chi “applica” un sistema, preferiamo cambiare “per finta” le regole del gioco per non ammettere che forse la responsabilità è dei giocatori.
Non so quante leggi elettorali abbia cambiato l’Italia dal 1861. Io, che non sono uno storico, ne ho contate almeno dodici, ma sono certo di peccare per difetto. Abbiamo attraversato quasi tutti i sistemi di Stato e di Governo, sperimentato quasi ogni esperienza di colore politico, di combinazione partitica e di arcobaleno elettorale. Dovremmo a un certo punto vedere le “cose per come sono” per farlo dobbiamo cominciare a considerare le cose con un po’ forse di cinismo, almeno nella forma e misura di “cinismo diagnostico” che viene richiesta ad un medico di pronto soccorso quando arriva un ferito grave – e quindi non andare troppo per il sottile e salvare il morente. Perché dietro i tanti rivoli di facili eccezioni e distinguo dei fiumi di parole delle analisi quotidiane, si nasconde un male oscuro, da cui dovremmo tutti cominciare a distaccarci: l’attenuante dell’eterna assoluzione.
Quello che manca in questo paese non è una “normale” legge elettorale – quello semmai è uno degli effetti patologici più evidenti. Non abbiamo la giustizia peggiore – come tempi, costi ed equità – del “mondo occidentale” – questa semmai è una disfunzione strumentale al “non cambiamento”. Non abbiamo il sistema sanitario più corrotto e dispersivo e meno meritocratico d’Europa – questo semmai è solo un indice estremo di un malcostume congenito. Non abbiamo un sistema dell’informazione tra i peggiori del mondo – questa semmai è solo una conseguenza, coerente e strumentale e utile “a che tutto possa non cambiare qualsiasi sia il cambiamento”.
Noi siamo un paese “mediocre”, perché mediocre è la nostra classe dirigente. Siamo un paese corrotto, perché la corruzione, il piccolo privilegio, il clientelismo, il favoritismo, il correntismo, il rapporto “personale”, l’appartenenza politica o familiare, il baronato, sono stati i “sistemi” con cui si è fatto questo Paese. E questo male, profondo, radicato nel midollo della nostra società, che invece di produrre nuovo sangue ha solo prodotto nuova linfa a questo costume, ha impedito la nascita di una classe “intellettuale” autentica. Perché di questo manca l’Italia.
Confondiamo un intellettuale con un laureato, un “maestro” con un professore, un intellettuale con il numero delle sue pubblicazioni, uno scrittore con le recensioni, senza comprendere che in un paese corrotto in sé sono proprio questi sistemi di “riconoscimento” ad essere la peggiore falsificazione della realtà. Un intellettuale non ha colore politico, non ha appartenenza, non ha titoli, non ha codazzi. Un intellettuale è semplicemente colui che liberamente, senza essere al soldo di qualcuno, rilegge la società in cui vive e di cui è parte e ne disvela, a beneficio collettivo, le ipocrisie e i mali. E quando questo paese ha avuto simili personaggi, dai tempi di Dante, li ha sempre allontanati ed esiliati, come fonte del problema, come “distruttori” come a-costruttivi, salvo poi farsene bandiera, e sempre quando gli stessi non potevano più parlare. Io ricordo spesso “io conosco i nomi” di Pierpaolo Pasolini, un uomo che andò in televisione per “usare dichiaratamente” lo strumento televisivo per metterci in guardia dalle degenerazioni che quello strumento avrebbe potuto portare nella nostra società. Ostracizzato dal Partito Comunista che poi, dopo la morte, lo ha reso sua icona. Vi sono molte più vittime di falsi intellettuali, che non di una guerra. Parole prezzolate a questa o quella parte per ottenere un piccolo o grande stipendio, per ottenere un favore, un privilegio, un vantaggio, o per semplice riconoscimento narcisista.
E tutto questo, perché il vero cancro di questo Paese è la mancanza di responsabilità della sua classe dirigente. Non c’è un giudice responsabile per una sentenza sbagliata o di parte. Non c’è avvocato responsabile per un lavoro fatto male. Non c’è medico responsabile per una diagnosi o una cura o un intervento sbagliato. Non c’è ingegnere che paghi per una strada o un ponte o un palazzo che crollano per aver sbagliato progetto realizzazione. Non c’è giornalista che paghi per la notizia falsa, o manipolata. Non c’è dirigente che paghi per le sue scelte sbagliate. Non c’è politico che paghi le conseguenze di leggi o provvedimenti sbagliati.
La vera riforma, che renderà efficace qualsiasi altra variazione dei nostri sistemi, è quella che parte da noi stessi, che premette irrimediabilmente che qualcuno – come classe, come categoria, come generazione – si assuma la responsabilità. Responsabilità che non è il facile opportunismo populista dell’affibbiare “una colpa”. Perché se di colpa parliamo, quella è di tutti noi. La colpa è di chi doveva vigilare e non lo ha fatto, di chi doveva opporsi e non lo ha fatto, di chi doveva fare la propria rivoluzione generazionale e non lo ha fatto, di chi per un posto, un concorso, un incarico, ha scelto di “nicchiare”. La colpa è di chi “sapeva” e non ha detto, di chi aveva voce e non ha urlato, di chi ha urlato troppo per non far sentire altre parole. La colpa è anche di chi ha scelto una posizione sociale rinunciando ad un amore autentico, perché anche questa è una scelta, sia etica che morale.
Scegliere la via della responsabilità, è rinunciare ad aver bisogno di eroi che ci salvino da mali estremi, è correre tutti i giorni il rischio di fare scelte poco comode, è affrontare il proprio ruolo senza precostituirsi alibi o ricercare attenuanti, è riconoscere il merito di chi è “migliore” di noi e fargli posto nell’interesse di tutti. Scegliere la responsabilità è combattere innanzitutto le proprie battaglie verso noi stessi, verso il facile compromesso, contro una scelta di opportunità, rinunciare ad una facile scorciatoia, comprendere che se lo facessimo tutti, ma davvero tutti, tanti problemi non esisterebbero nemmeno.