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Michele Di Salvo
02 Mar

Giù le mani dalla cultura, la cultura non è di parte

Pubblicato da micheledisalvo  - Tags:  Appunti di viaggio, crisi, cultura, forum delle culture, giovani, informazione, intellettuali, letteratura, morti bianche, Pasolini, Pasternak, poesia, Politica, ricordo, Società

Che la situazione e lo stato del mondo della cultura sia in crisi è un dato di fatto. Direi endemico nel nostro Paese, dove è sempre stata usata come vessillo da questo o quel governante di turno, come facciata a volte anche coprente di tutti  problemi veri. La cultura, quella vera, fa paura, e soprattutto non può essere usata strumentalmente, essendo di per sé critica, sociale e collettiva. La crisi – in senso però etimologico – della cultura è un qualcosa che appartiene alla nostra storia nazionale con qualche similitudine in molta parte d’Europa, e riguarda una trasformazione profonda del lessico. La cultura non ha colore politico, non è né di destra né di sinistra, ma essendo sempre “critica” assume la posizione – mai il colore – di essere per definizione di opposizione.

Un esempio speculare lo troviamo in tutti gli ex paesi del cd. blocco sovietico, dove per anni “chi faceva cultura” (nelle forme della poesia, del teatro, della letteratura, della musica…) era “di destra”. Senza scomodare la grandezza del caso Pasternak in Russia, in questa assurda e improbabile mania classificatrice io mi ricordo che il mio amico e collega “yugoslavo” Srdjan Stanisic era stato arrestato più volte come “reazionario” nel suo paese prima del 1990, e contemporaneamente è stato l’editore e curatore di un testo come il “children accuse”, che raccoglieva la documentazione delle “morti bianche” a seguito dei bombardamenti NATO. Ecco che se “studiassimo” tutti un po’ di più potremmo uscire dai nostri schemi mentali un po’ preconfezionati da una certa “cultura della cultura” e affrontare le nostre contraddizioni.

Sino a quando “una certa sinistra” era all’opposizione, il mondo della cultura vi si identificava pienamente -  in uno con le istanze di libero accesso alla formazione, all’eguaglianza sociale, alle pari opportunità. Oggi – e da quando “una certa sinistra” è diventata parte del governo – questa simmetria lineare è andata persa, accompagnata da alcuni esponenti storici che hanno indubbiamente beneficiato e talvolta abusato nella propria carriera personale di una certa vicinanza con “il nuovo potere”, ed altri rimasti nuovamente “ai margini”; peraltro soffrendo nel vedere che “arrivata al potere” una certa sinistra ha cambiato poco o nulla di quelle reali possibilità di accesso e di apertura tanto auspicate. E bene già lo aveva descritto tutto questo un Paolini che sempre più ci manca umanamente, ma che con grande lucidità già delineava queste contraddizioni – anche sistematiche – sia di appartenenza che di ruolo, nel suo ben noto ma poco letto “io conosco i nomi”.

E così ccade che, un po’ esacerbati da una situazione oggettivamente incandescente sul piano sociale ed economico, e in un condizione eccessivamente peggiorata e degradata da anni di “soppressione” economica, molti “esponenti della cultura” affrontino un momento di “crisi” profonda – intesa però come “trasformazione” che dovrebbe presupporre un certo grado di attenta riflessione sul ruolo dell’intellettuale nel nostro mondo e nel nostro tempo, possibilmente abbandonando schemi, linguaggi e simboli che più non si accostano, e certamente non rappresentano, il mondo in cui viviamo – e non dimeno ne restano immutate le istanze umane, le tensione sociali, e i bisogni di equità e di uguaglianza sociale e dei diritti. Accanto alle giuste istanze sociali e culturali, molto spesso, come è accaduto altre volte nella storia sociale e politica, la precarizzazione (non solo economica ma anche esistenziale) di un certo mondo rischia di diventare bacino fertile e fucina non già di una critica seria, forte, che non ammette attenuanti né distinguo rispetto alle responsabilità del potere, bensì di “portatori d’acqua” ad un facile populismo – cui si ricorre sempre quando non si ha uno spessore politico o una competenza e capacità amministrativa.

E così accade che oggi siano due le categorie “intellettuali” che trovano spazio nella nostra società: da un lato gli “scrivani pagati” – siano essi giornalisti, registi, commentatori, opinionisti – al servizio e difesa di chi “detiene il potere” – categoria che a ben vedere finisce con il confondersi con lo stesso e con il farne parte; dall’altro “gli utili strumenti” di una opposizione vuota e talvolta del populista di turno pronto a cavalcare un’onda spontanea, o a fomentarne una da cavalcare.

Ebbene, in questa più ampia e mi auguro più profonda riflessione di trasformazione che il mondo della cultura deve avviare in sé e su di sé, io mi auguro che ciò che alla fine resti sia la non appartenenza a nessuna di queste due categorie, ma anzi un rifiuto sistematico, quasi come metodo discriminante, di ciascuno di questi usi e di queste strumentalizzazioni, ed il massimo dell’impegno al disvelamento – per il bene comune – di queste distorsioni.

Le giuste istanze, soprattutto di opposizione al depauperamento del nostro patrimonio culturale, nonché verso l’apertura di spazi, non può più passare né da atti di violenza (che anzi finiscono con il giustificare forme repressive con ragioni di ordine pubblico) né da compromessi al ribasso come l’occupazione di uno spazio, e la facile concessione di qualche contentino, né da atti di illegalità, che negano in sé la dignità culturale di una qualsiasi istanza.

La riappropriazione di una dimensione alta, e di fondamentale strumento all’utile sociale, passa per la più determinata indipendenza da ogni forma di potere, rispetto cui non si può essere nemmeno incidentalmente strumento propagandistico o populistico. Perché la vera, e forse unica, forza della cultura è e resta la sua sistematica indipendenza e criticità come metodo di analisi e di sintesi.

Ad una società che ha la corruzione come metodo per fare le cose, non si può rispondere con atti ce prevedono la violazione di una legge – qualsiasi – pena perdere la dignità del contenuto della protesta e della istanza giusta e legittima che si considera alla sua base. La forza di una contestazione culturale deve passare paradossalmente dal’uso sistematico delle leggi e delle regole in maniera sistematica e paralizzante. Disvelare proprio attraverso l’uso forzato e massiccio delle regole di chi governa le sue contraddizioni. Invadere e sommergere di citazioni e denunce penali ed amministrative ogni amministrazione e atto che va contro i principi della costituzione, predisporre e proporre piani, progetti alternativi e porli innanzi a giudizi di merito, essere coscienza sociale con inchieste permanenti, costituirsi parte civile ogni qualvolta un atto di qualsiasi tipo danneggia una categoria.

Se il linguaggio è maieutico, allora il ripensamento del mondo intellettuale passa anche e soprattutto da parole e simboli nuovi e diversi, che rifuggano da un passato manicheo, ma che introducano linguaggi e dinamiche e strumenti differenti, ed anche in questo non più strumentalizzabili da nessuna retorica. Ma questo significa anche accettare di rifiutare un qualsiasi prezzo che venga offerto, e significa imprescindibilmente essere di parte senza far parte di nessuna fazione.

Significa accettare l’idea, ma concreta, che l’unico soggetto cui si deve rendere conto è la società nel suo complesso e non già qualsiasi forma di sua rappresentanza delegata – ed è solo attraverso questa riconquista di una dimensione di assoluta indipendenza che sarà recuperabile una qualsiasi pretesa di spessore ed autorevolezza tali da cambiare, concretamente, un certo stato delle cose.

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