Perchè un "self-publisher" non è un editore, e un libro è un'altra cosa...
Se ne fa un gran parlare – e come sempre nel mondo dell’editoria – sempre in maniera estremista e manichea, tra chi è completamente a favore ed entusiasta, e chi ne è strenuo oppositore, anche qui con toni troppo spesso eccessivi, e con poche, vere, cognizioni di causa.
Intanto cos’è: si tratta di una semplice piattaforma informatica con interfaccia web attraverso la quale qualcuno (autore) inserisce un testo che quindi viene in maniera semiautomatica impaginato e trasformato in e-book e reso “disponibile” per chi voglia, a pagamento, scaricarlo e leggerlo. Il servizio, normalmente ha un costo, a carico del neo-autore, che però ne percepisce una percentuale alta del prezzo di vendita, e ciò perché “l’editore” (in questo caso il soggetto che mette a disposizione la piattaforma) non ha un costo industriale di realizzazione della “singola copia”.
Tecnicamente questo tipo di “pubblicazione” (che dovrebbe essere letteralmente “rendere disponibile al pubblico”) già esiste da tempo, per i supporti elettronici già pubblicati in veste cartacea, tanto che al posto del codice ISBN (quello da cui viene ricavato il codice a barre che sta dietro la copertina dei libri cartacei) ne esiste uno ad hoc, il DOI Digital Object Identifier.
La questione è molto semplice, ma ha specifiche declinazioni che tengono conto del dibattito culturale, degli usi e del mercato di ciascun paese, oltre che chiaramente dell’incidenza tecnologica. Il dibattito in corso, specie per quanto riguarda l’Italia, è ben descritto in un articolo cui rimando nella sua interezza.
Da una parte gli editori “tradizionali” che vedono il rischio di una “perdita di qualità” attraverso un sistema “semplicemente orizzontale” che, privo di filtri, restituirebbe una equazione di identità tra “autore” e “colui che ha scritto qualcosa”. Dietro questa posizione, l’investimento tecnologico enorme rispetto al nostro mercato linguistico necessario per “entrare in questo business”, il rischio di perdita di competitività tra la qualità di un libro tradizionale, e tradizionalmente lavorato, e un “file messo online”. Il rischio, anche peggiore, che il proprio lavoro non venga compreso, valutato, valorizzato.
Dall’altra ci sono gli aspiranti autori, che come dice Vasto hanno “una percezione dei 'no' come guasto inammissibile, come torto inaccettabile...”, con l’idea che il loro testo sia perfetto, che non può non essere pubblicato, che l’editore è il mentore-mecenate-sponsor-agente-manager -segretario e che ogni insuccesso, è a lui imputabile (e anche il concetto di insuccesso va declinato). Dietro questa posizione, certamente una impropria concezione di chi sia, cosa debba essere e fare davvero un editore - che troppo spesso si presenta come appartenete ad un mondo chiuso ed elitario e percepito come “giudice” (di per sé ingiusto, e dalle discutibili competenze) della cultura e non come imprenditore culturale – ma verrebbe da aggiungere che spesso questa visione distorta è proprio causata dagli atteggiamenti e dalla a-comunicazione da parte di noi editori.
Certamente una certa sottocultura dell’editoria cd. “a pagamento” – che sforna quelli che Eco ha definito aps (autori a proprie spese) non ha aiutato, né alla categoria degli editori, ad un certo lavoro e ad una certa qualità dello stesso, né gli autori, entrati nell’ottica di uno “status” spesso facilmente “acquistabile”. E questa non è che una possibile “evoluzione” di questa “deformazione” – che è insieme sia del mestiere dell’editore che dell’attività di scrittore: basta pagare – per la copia cartacea prima, per un file in rete domani. Resta la “presunzione” di cui prima: se non divento famoso è colpa dell’editore, che si tradurrà in alcune considerazioni di cui anche oggi non si tiene conto.
Nel web esistono oltre 120 miliardi di pagine e i contenuti digitali sono oltre due miliardi. Come conoscere e riconoscere l’e-book in self-publishing? Che sia su Amazon o su un sito qualsiasi, nel web, conta poco. Quello che conta – come sempre, e che riguarda anche il “vecchio libero cartaceo” – è la conoscenza e la proposta di quel libro specifico – un ruolo che forse troppo spesso e troppo a lungo noi editori abbiamo “saccentemente” delegato alle sole librerie – nella stessa presunzione che “stare in libreria equivalesse a vendere”.
Queste logiche sono le stesse che accompagno il “self-published-e-book”. E allora facciamo due conti. Consideriamo quanto tempo ci vuole, per farsi conoscere, oggi, nel web, per contattare persone, attirare “attenzione” sul proprio libro… Sembra tutto facile, e tutto gratis, ma non lo è – anzi!
Qui va poi fatta una riflessione più articolata, anche se su dati che dovrebbero essere ovvi. Gli editori non hanno un mercato nazionale/territoriale, ma di area linguistica; il loro investimento, e la capacità distributiva e promozionale, è legata al numero di lettori “raggiungibili”. È chiaro che per un editore “di area linguistica inglese” il concetto stesso di investimento editoriale è proiettato su un' area di circa 2,5miliardi di persone, ed è improponibile anche solo il confronto con l’area di lingua italiana che a stento arriva a 100milioni di persone. Ma questo è stesso panorama di lettori che si apre ai “self-publisher” ed ai loro “contenuti” (non chiamiamoli né libri né e-book!).
Se consideriamo quindi questi aspetti, ovvero la dimensione dell’investimento, il rapporto con il pubblico potenziale fruitore, e i costi di “promozione” – che la rete ci illude essere nulli, ma che in realtà sono alti e soprattutto di complessa gestione, pare evidente che questa è una inutile polemica. Forse – per dimensione – qualche editore italiano, per occupare tutte le declinazioni dell’editoria, si doterà di una piattaforma in tal senso, e forse farà anche un po’ di fatturato, illudendo l’autore che con “un certo para-marchio” diventerà famoso, e il suo sarà “un vero libro”. Ma non è la stessa cosa, né lo stesso mercato, né la stesa prospettiva di “industria del content-management” in cui si possono affacciare le nostre case editrici.
Anzi, con ogni probabilità, la vera discriminante resterà proprio la qualità. Quel lavoro di selezione ed edinting, e di cura nella pubblicazione, nella sua materialità ed in un rapporto diretto e tangibile con il lettore, che farà la differenza e marcherà ancora di più la differenza tra ciò che è un libro, e il suo contenuto, e ciò che è un “contenuto digitale”, e la sua specifica forma e diffusione.
[articolo pubblicato su BookShop - n° marzo-aprile 2012]
[e per chi volesse qualche utilmagiore considerazione uscendo fuori dalle nostre logiche nazional-provinciali rimando a questo articolo e relativi commenti]