Per una vera riforma dell'editoria periodica
Ogni volta che ci sono da “fare tagli” si parla inevitabilmente anche di sprechi, e di sprechi questo Paese è pieno.
In realtà di sprechi ce ne sono ben pochi, meglio sarebbe chiamarli per nome, ovvero clientele.
Le varie forme di finanziamento all’editoria periodica, di cui si sente spesso parlare, rischiano di far finire tutto e tutti nel solito calderone, di cadere e scadere nella facile demagogia, del qualunquismo delle affermazioni dei soliti tuttologi… in una perdita di tempo dialettica che serve solo a dare il tempo a chi deve di “spostare” la propria fonte di finanziamento.
Cerchiamo però di capire sinteticamente quale e dove sia il problema.
Lo spirito delle varie leggi di contributo va nella direzione di garantire il pluralismo della e nella informazione; nelle intenzioni quindi non un intervento “a pioggia” ma di sistema. Recentemente questa forma di finanziamento ha dovuto bilanciare sommessamente l’inattività (volontà politica in tal senso) del legislatore ad un serio intervento antitrust sul mercato delle risorse pubblicitarie, sulla concentrazione delle testate, sulla apertura del mercato delle concessionarie. Questo ha fatto si che nello stesso paniere finisse un sostegno doveroso ad alcune testate – nella direzione di bilanciare gli squilibri del mercato – e il finanziamento dei “giornali di partito”, ovvero una forma di integrazione del finanziamento pubblico ai partiti stessi. Partiti, che contemporaneamente beneficiano di interventi in favore di proprie radio tv, siti web ed ogni altra forma di comunicazione.
Una misura “seria” sarebbe stata avviare un percorso; intanto di verifica della effettiva “esistenza” delle testata e della loro diffusione, poi di ridefinizione dei parametri di accesso a questi finanziamenti, semmai anche in via “restrittiva”, elevando sia standard qualitativi sia commerciali e di mercato. Sarebbe stato bello in questa ottica premiare ad esempio il rispetto del codice deontologico, verificare i richiami formali e le censure subite, in un’apposita graduatoria che avrebbe anche costituito il “senso” di una “qualità giornalistica” e censurato davvero e in maniera efficace condotte poco professionali. Sarebbe stato bello dividere i finanziamenti in modo chiaro, così che tutti potessero immediatamente vedere quanto il parlamento destinava a se stesso (giornali di partito) e quanto effettivamente all’editoria periodica.
Nel merito, gli interventi predisposti sono i più disparati: dal contributo sulla carta all’innovazione strutturale e tecnologica… nulla in materia di assunzioni, di stabilizzazione e di regolamentazione della collaborazione e della formazione giornalistica. Anche questo sarebbe stato bello da vedere, ad esempio dato che per accedere all’esame da professionista si deve fare un certo praticantato (e quindi avere un contratto di tal genere), una forma di rimborso formativo, fosse anche solo come credito di imposta. Ma in questo forse l’opposizione non sarebbe venuta dagli editori come si potrebbe pensare, ma da quella parte di giornalisti che si considera una casta, che alimenta se stessa tramandandosi la scrivania, e che preferisce guadagnare qualche extra in qualche scuola o nella formazione universitaria – che poco hanno da insegnare e decisamente meno formano concretamente per la professione.
In una riforma vera – che interessi davvero i cittadini e che possa fare “il bene” dell’editoria periodica – sarebbe anche bello vedere che, a fronte di un contributo pubblico, vi fosse anche un “servizio di ritorno pubblico”; ad esempio una maggiore e definita partecipazione dei lettori, un servizio di comunicazione diretta, in un quadro di servizi minimi “codificato”, e non lasciato alla libera iniziativa di questa o quella testata. E questo anche con particolare riferimento al diritto di replica, di rettifica, di approfondimento, di accertamento della notizia e della fonte – in maniera ben più efficace di come non siano applicate e applicabili oggi, pur dove e quando previste.
Ma tutto ciò incide e inciderebbe sulla “qualità” – e di per sé non è poco – ma non ancora sul mercato vero e proprio. E questa volta la connivenza, colpevole e strumentale e clientelare, di editori e politica fa da padrona nelle vere responsabilità, soprattutto di omissione. Perché se si volesse mettere davvero mano al mercato e farlo funzionare finalmente in maniera libera, e quindi anche rendendo meno necessarie forme si finanziamento pubblico, basterebbe semplicemente imporre dei tetti e dei limiti. Un limite alla raccolta pubblicitaria per periodicità – per cui una singola concessionaria non po’ raccogliere ad esempio oltre il 15% dei quotidiani, dei mensili, dei settimanali e così via… Un limite massimo del costo fisso diffusionale, e un limite alla quota di mercato dei distributori locali, così da evitare accordi impositivi di cartello o di gruppo editoriale. Evitare che i quotidiani abbiano una propria distribuzione diretta – per evitare che in alcune aree facciano mercato a discapito delle altre testate – così che effettivamente lo sconto diffusionale sia “uguale per tutti”.
Tutto questo non va a difesa di nessuno, semmai è una protezione collettiva dei lettori che un tempo si diceva essere “i veri padroni dei giornali”. Imporre dei limiti alla concentrazione (anche e soprattutto trasversale, verticale e industriale – indipendentemente dalla proprietà effimera della tastata) è un bene per tutta la collettività. Se tutto questo venisse anche bilanciato ed irrigidito da una maggiore richiesta di qualità, forse avremo una informazione davvero più libera e diversificata. E forse quel giorno, di conseguenza, potremo aspirare ad avere un dibattito sociale e culturale migliore, e una classe dirigente più adeguata ai nostri bisogni come cittadini e come Paese.