Lo shock di Friedman e la necessità di tornare a pensare
Stavo riflettendo in questi giorni su alcuni autori che vengono spesso citati da alcuni commentatori televisivi, troppo spesso a sproposito e in maniera parziale, specie su temi economici – spesso e volentieri solo per dare dignità e autorevolezza alle proprie opinioni. Il dibattito cade spesso sulla “contrapposizione” (che vorrei ricordare accademica) tra Keynes e Friedman – dualità essenzialmente legata al ruolo che dovrebbe avere lo Stato nell’economia secondo le due diverse scuole. In uno dei suoi saggi Milton Friedman analizzò alcuni momenti cruciali dell’economia occidentale – almeno dal suo punto di osservazione e sino agli anni sessanta (non a caso insegnava statistica). Ne formulò una teoria – che a taluni oggi può sembrare anche ovvia – che venne politicamente usata e manipolata (come avviane per molte teorie) per i più svariati usi. Va precisato che Friedman non aveva cognizione di un mercato finanziario globale, così veloce, così fortemente esponenzializzato dalle leve finanziarie; non per altro perché esattamente come Keynes, questo mondo non era il loro. E credo che questa piccola nota sia molto più che un inciso per il ragionamento che ci riguarda.
Friedman formulò nella “dottrina dello Shock” una sorta di tattica che costituirà il nucleo del capitalismo contemporaneo; osservava infatti che soltanto una crisi – reale o percepita – produce il vero cambiamento. Ed è quello che ad esempio ha fatto dire al nostro Monti che “le crisi sono necessarie”. Quando la crisi colpisce – reale o indotta, vedi il nostro debito interno – è fondamentale agire in fretta, “non far pensare“, imporre il mutamento rapido e irreversibile prima che la società tormentata dalla crisi torni a pensare. La teoria è che, “ una nuova amministrazione dispone di un periodo di sei – nove mesi in cui realizzare i principali cambiamenti; se non coglie l’opportunità di agire incisivamente in quel periodo, non avrà un’altra occasione del genere”. Variazione sul tema machiavelliano per cui i danni andavano inflitti tutti insieme, questa si sta dimostrando una delle eredità strategiche di M. Friedman più durature.
Cambiando il punto di osservazione dai processi economici alle persone, la chiave in qualche modo di volta sta nella rapidità con cui “le persone” riprendono a pensare dopo lo shock! Io non credo che sia un male una crisi, se serve e nella misura in cui serve a introdurre un cambiamento nelle dinamiche che non funzionano di un sistema. Credo non sia un bene che questo “stato di emergenza” faccia tabula rasa di una cosa invece indispensabile: la programmazione di lungo periodo, che può esistere solo con un governo politico di un sistema.
Se ben riflettiamo, alcune misure possono anche essere necessario in una logica di intervento immediata in un momento di crisi – quello che Friedman definiva lo shock. Tuttavia tutte le misure in questo periodo e in questa logica intraprese restano un tampone e non si può certamente chiedere ad un governo “non-politico” di tracciare percorsi che devono essere “politici”. Quale stato e quale modello vogliamo per il futuro, in che direzione andare, cosa togliere del peso dello Stato sull’economia reale e cosa invece scegliere consapevolmente di lasciare e potenziare sono scelte che competono a valutazioni politiche. E non si può tornare alla politica se non “tornando a pensare”.