I partiti e la paura della partecipazione
Forse qualcuno non lo ha capito, abituato troppo a lungo a guardare il mondo e il Paese da un’angolatura decisamente distorta e particolare, ma è attraverso la legge elettorale che si costruisce un parlamento, e non il contrario. Se esaminassimo la storia delle cd. democrazie occidentali, ci renderemmo facilmente conto che i governi sono stati sempre determinati “prima” del voto; attraverso il limite dell’alfabetizzazione, del censo minimo, della residenza, dell’età, del sesso, si stabiliva prima chi poteva votare per chi, e quindi quali maggioranze avrebbero potuto costruire quali governi e quindi quali priorità e provvedimenti e quali interessi ne sarebbero stati rappresentati. In questa direzione le grandi conquiste del secolo scorso in tema di allargamento massimo della base elettorale, con il suffragio universale e il diritto di voto alle donne.
La tecnica politica si è poi affinata, restringendo altri elementi attraverso il modo di creare le liste, di fare i collegi elettorali, di alzare soglie di sbarramento, le raccolte di firme… Se però è vero che usando la “tecnica” dei sistemi elettorali una determinata classe dirigente “si blinda” è altrettanto vero che la diretta conseguenza è uno scollamento rispetto al “popolo che dovrebbe esserne rappresentato”. Peccato che questo “scollamento” non sia stato declinato sino in fondo, restando un termine pubblicistico che anima per lo più lo spirito dei talk-show invece che un serio confronto. Questo scollamento significa essenzialmente mancanza di autorevolezza, mancanza di rappresentatività, e quindi mancanza di un’autentica capacità politica di dettare le priorità, è uno scollamento così profondo (e lungo) che porta a consegnare di fatto il paese e le decisioni da prendere in mano ad una burocrazia invece nata e formata per essere strumento di attuazione.
Ecco perché alla fine qualsiasi dibattito, analisi, mea culpa, che non porti ad una concreta trasformazione della legge elettorale in senso di riconsegnare una scelta vera e diretta da parte dei cittadini è semplicemente inutile, se non utile solo ad aumentare questo scollamento. E il fatto che si faccia cadere un governo in un momento così complesso per non cambiare questa legge elettorale, è semplicemente un atto criminale. Senza attenuanti. Perché ci darà un parlamento di nominati, senza veri cambiamenti nei nomi e nelle componenti rappresentate, in una situazione di nuova ingovernabilità, e aprendo una nuova fase di galleggiamento politico.
Forse spinti dall’effetto comunicativo, il Partito Democratico ha avuto certamente il merito di “aprire i giochi” attraverso una formula italiana nella via alle primarie, prima in ambito locale e poi a livello nazionale e territoriale. Ma è proprio il clamoroso effetto partecipativo che forse ha frenato gli altri partiti nel fare altrettanto, perché si sa, che se fai una consultazione davvero aperta, partecipata, logisticamente e partecipativamente ampia, consentendo tempi per i dibattiti, i confronti e la conoscenza dei programmi, allora il risultato non lo puoi “pilotare” o costruire a tavolino.
E abbiamo assistito al valzer infinito che ha dilaniato il pdl, sino alla scelta finale di scappare di fronte al giudizio anche semplicemente del proprio corpo elettorale. Eppure i segnali c’erano tutti sulla volontà di cambiamento della leadership; basti pensare al dimezzamento delle preferenze di Berlusconi al comune di Milano, basti pensare (senza arrivare al dimezzamento nei sondaggi) all’enorme entusiasmo che il popolo del pdl ha mostrato alla semplice ipotesi di una consultazione – in un partito, va ricordato, in cui anche il segretario nazionale e la direzione nazionale sono cooptati o nominati.
E abbiamo assistito a quella farsa delle parlamentarie inventate da Grillo che hanno visto candidati che non hanno avuto tempo, modo e opportunità di farsi conoscere, che per regolamento non potevano confrontarsi, che per presentarsi hanno dovuto sottoscrivere un contratto liberticida, venire poi scelti online da meno di 38mila persone virtuali (un partito che sarebbe al 15%!) con regole assurde per qualsiasi votazione… e ovviamente qualcun altro altrove deciderà se come e dove candidarli…
Forse sull’onda del risultato mediatico, nuovamente il pd ha sfornato “nuove primarie” per scegliere i candidati. Il ricorrere alla base elettorale, in qualsiasi modo e occasione, lo ripeto, è sempre una buona cosa per la democrazia… a meno che… e sempre che… A meno che non sia un’ennesima occasione di allargamento “sprecata” nell’essere ridotta alla conta delle componenti interne, in cui si distribuiscono quote tra renziani, bersaniani e vari ed eventuali. E sempre che – appunto ed al contrario – si riesca invece a costruire un momento in cui chiunque si riconosca in un progetto ed in un programma, abbia un momento di confronto, proposta e partecipazione.
Ecco, la vera sfida sarebbe avere un momento, semmai qualche mese prima delle elezioni e con i giusti tempi, per dare voce e spazio e idee e storie e persone “nuove” per arricchire e contribuire ala crescita non tanto di un partito, quanto della partecipazione civile del paese e delle molte anime della sua società. Queste sarebbero le primarie che “nessuno può più fermare” e che innescherebbero quel processo di riappropriazione della politica da parte dei cittadini di cui tutti, ma proprio tutti, abbiamo un gran bisogno.
E qui nasce l’antidoto alla tecnica delle leggi elettorali. Un momento che al di fuori ed al di là del voto faccia si che si possa davvero cambiare classe dirigente, per proporre una rappresentanza nuova e diversa, che poi possa davvero, autorevolmente, cambiare anche le regole elettorali. Ma a questa sfida, non tanto “i partiti” quanto le vecchie classi dirigenti, forse, non sono ancora pronte, o peggio di questa sfida hanno davvero paura.