La campagna elettorale e il web 2.0
Ci si è dati (più o meno tutti) un gran da fare in questi ultimi mesi a parlare di “nuova comunicazione” riferendosi alla vecchia politica. In troppi riproponendo un assioma forse ancor più vecchio, ovvero che “nuovo” e “vicino alla gente” significasse usare “internet e i social network”. Si sono un po’ tutti dimenticati la regola aurea della comunicazione – quella vera – ovvero che viene sempre prima il contenuto (è quello a dover essere nuovo) e poi, e direi anche di conseguenza, una “diversa” forma per comunicarlo, attraverso, questo si, nuovi strumenti.
La ricerca del nuovo (a tutti i costi e senza le necessarie declinazioni) ha portato a rendere se possibile già vecchi i social network, le liste tematiche, i gruppi di discussioni, le stanze-chat, in un uso e spesso abuso massivo e tossico, spesso industriale, ancor più spesso “tanto per fare” e di re di esserci o “ci sono anch’io”. Un vecchio ancor più vecchio del vecchio – scusate la tautologica risposta – perché vecchi i personaggi, i linguaggi, i modelli, i contenuti, le sintassi. Ma peggio ancora appare vecchia e vuota la comunicazione politica attraverso una vera e propria occupazione si spazi da parte di partiti, movimenti e candidati, che invece di “innovare” si sono affidati a “vecchie” (come loro) società di comunicazione che si sono reinventate una competenza web che non hanno mai avuto.
Ed ecco che alla richiesta “fallica” tutta italiana del politico di “avere tanti follower”, l’agenzia di turno fa fatturato – più o meno caramente – pacchetti interi, da cui non si esime nessuno, in maniera assolutamente trasversale. Tanto vale per facebook quanto per twitter – tanto per citare ciò che va di moda e appare facile in Italia. E basta scorrere la lista dei cd. fan su facebook per vedere profiili fake in quantità industriale, o peggio ancora ciò che accade su twitter:
Monti: 27% fake 44% inattivi e il 29% “reali”
Bersani: 35% fake 42% inattivi e il 23% “reali”
Berlusconi: 39% fake 36% inattivi e solo il 25% “reali”
Su tutti il seguitissimo Grillo che vanta il 46% fake il 41% inattivi e solo il 13% “reali”
Ma questi sono solo alcuni dati presi a campione – la media resta questa (salvo piccole sparute e agguerrite eccezioni) per tutti i leaders politici, nessuno e nessuna parte esclusi. Mi sono limitato perché la cosa francamente non mi appassiona più di tanto, ma rinvio ciascuno di voi a verificare da sé il fenomeno scegliendo liberamente l’account di chi più lo aggrada. Basta andare qui http://fakers.statuspeople.com e il gioco è fatto. Se poi a qualcuno venisse in mente di pensare “chissà chi c’è dietro” questa app… bè semplicemente una costola dello stesso twitter, perché dal momento che l’influenza in rete è alle volte un business, conoscere se quei “seguaci” sono veri o meno interessa molto (e in maniera neutra e apolitica) alle aziende di marketing. In merito rinvio a quanto abbiamo già detto sulla infuence evalutation.
Ovviamente i “nuovi guru” della comunicazione in rete saranno stati soddisfatti di mostrare strabilianti risultati ai loro committenti – che mi immagino compiaciuti girare in transatlantico a fare a gara “a chi ne ha di più”. Essere così sgamabili però non credo sia poi una bella figura. Semmai un modo nuovo e in più per mostrare un certo vuoto di contenuto, e rendere evidente che certi candidati – nemmeno in rete e nel virtuale – hanno un seguito reale. Lo stesso Grillo che tanto strepitò e minacciò Camisani Calzolari per aver parlato del fenomeno, alla fine non ha né denunciato né querelato (né lui, né me che semmai sono andato anche più a fondo), perché? Perché se quereli poi devi dimostrare con prove alla mano che l’altro ha detto il falso, e dato che non lo puoi fare… Lo stesso Marco Camisani avvertiva in un post di qualche settimana fa di “trucchetti come quello per cui c’è chi compra fake follower agli avversari politici (visto che per farlo non serve avere alcuna password) e poi segnala ai giornalisti la crescita anomala… Inoltre, per i limiti imposti da Twitter, non è possibile eliminare più di 1000 utenti al giorno. Quindi se domani io comprassi 100.000 fake followers riempiendo l’account di qualche politico, ammesso che trovi un algoritmo in grado di riconoscerli con assoluta certezza, per eliminarli tutti ci metterebbe 100 giorni!” Tutto vero, se non altro possibile, se non fosse che dato che tutti sono “infetti” appare un po’ complicato perché la cosa in sé costituisce reato (penale) e gli spin dei nostri politici saranno anche dei “new guru improvvisati” ma non si vanno certo a mettere in situazioni penalmente pericolose.
Ma vediamo cosa succede poi nei vari siti e profili cui si sono rincorsi i nostri politici per dare l’assalto e dimostrare di esserci (dalla sera alla mattina) nel mondo digitale. Nulla. Si comportano in un web – diretto e interattivo – con la normale e consueta apatia e distacco di ogni altro canale di comunicazione. Usano il web (più o meno tutti) come una sorta di pulpito da cui parlare, come vetrina dove scrivere, come non-luogo in cui apparire, con rare eccezioni di qualche accenno di partecipazione. Il web – è bene ricordarlo per chi è stato assente negli ultimi dieci anni – è interazione sul contenuto, non comunicazione unidirezionale. Il modello social semmai accentua questa caratteristica, che distingue la rete da televisione, radio, giornali, che invece “inseguono” proprio su questo territorio nella ricerca della “interazione con il lettore/telespettatore/ascoltatore”. Non è semplice questione semantica, ma una dinamica differente.
Là dove questi sistemi interconnessi sono davvero sviluppati (Usa, Russia, Brasile, Cina, Ingliterra, India – non a caso i veri motori dell’economia mondiale!) è impensabile che un “politico” non interagisca sul serio e non risponda… anzi, l’approccio è proprio opposto. Non è il politico che dice “questa è la mia pagina diventa mio fan leggi quello che dico e amen”, ma “io vengo là dove sei tu” sul tuo social nel tuo mondo e interagisco e discuto. Lo fanno direttamente, lo fanno tramite staff veri, reali e competenti e specializzati, senza errori come offendere chi ti contesta (Gasparri ad esempio una volta scrisse “chi sei tu? Uno che ha 300 follower non conta niente…”) ma anzi, usa quella contestazione per mandare un messaggio di replica valido per tutti. Anni luce da un Bersani o un Berlusconi che non rispondono nemmeno quando citati su twitter (eppure uno staff lo hanno!) ma certamente anche ani luce dalla parodia di Monti. E sul punto non posso che reinviare a quanto scritto da Giovanni Scrofani http://gilda35.com/le-risposte-di-mario-monti-al-montilive-show semplicemente aggiungendo che non c’è nulla da aggiungere – su di lui e sul suo fantasmagorico staff di guru new newage.
Qualche timido tentativo di novità era stato tentato “a destra” – con una brillante almeno tentata candidatura della Meloni che se da un lato ha messo immediatamente a nudo la assoluta mancanza di copertura social, certamente ha corso il rischio di introdurre sintassi e contenuti veramente nuovi. Ma si sa che se non si parte per tempo, non si può certamente “innovare” in corsa. E quello che ci propone la comunicazione made-in-pdl è poco più dei manifesti 6x3 edizione 1994 e il relegare gli incontri “nelle segrete stanze”… ma siamo tutti certi che il meglio deve ancora venire, con spot stile tv commerciale anni ottanta che sapranno invadere in un remake gagnam style anche il web (con effetti prevedibilmente satirici e rocamboleschi).
Non ci potevamo aspettare di più da Grillo, che ci ha abituati – in nome e con la bandiera di innovazione e partecipazione diretta – ad una comunicazione unilaterale, fatta per proclami, con migliaia di commenti sul suo blog senza che mai lui risponda, partecipi o replichi… stile comico su un palcoscenico, replicato sul web… ops, ma lui infondo è questo: un protagonista della vecchia tlevisione che non avendo spazio lì se lo crea su youtube. Nulla a che vedere con la Russia di Putin che per competere con Youtube finanzia (tramite GazProm) RuTube, autentica alternativa televisiva con tanto di ex personaggi della tv che producono contenuti direttamente per il web. Non a caso il suo blog (sempre tra i primi 170 siti italiani) rispetto al picco di visite di maggio/giugno 2012 ha ridotto di 2/3 il suo pubblico, così come i commenti (fonte alexa a 1 anno) ed è in leggera risalita proprio per l’effetto elezioni.
Dulcis in fundo citerei le due new-old-entry in queste che da noi sono elezioni, e in america sarebbero la prima fase delle primarie. Va citato Fare, di Oscar Giannino, che rinnova con una creatività almeno non militante e posterizzata il consolidato metodo manifesto, ma non che non sa consolidare un potenziale di attrattiva forse per mancanza di tempo o di struttura – e si sa che se la difesa del “siamo nuovi e non abbiamo apparati alle spalle” è un jolly sempre valido, altrettanto ci aspetteremmo da chi vuole essere nuovo più che una corsa a fare in tempo per esserci, una autentica costruzione di consenso di ungo periodo. Va citato anche il gruppo arancione – sempre più simile ad una processione (anche mediatica) di monaci tibetani (appunto arancioni) – senza offesa per i monaci stessi. Almeno loro hanno una religione che non pretende di fare proselitismo armato né di raccogliere consenso, laddove nelle file che mettono insieme gran parte di ottime persone il vecchio si fa sentire con forza e prepotenza. Dietro facili parole e slogan, la campagna del “movimento nuovo della società civile” è lasciata allo scoordinato attivismo dei singoli di buona volontà, sperando in un risultato misto tra opinione, esasperazione popolare, appeale di nomi noti e una “onda lunga” di un furore popolare che però non c’è e che non si riesce ad aggregare in una proposta che vada oltre la protesta. Se queste sembrano semplici critiche, basta che ciascuno legga le “parole chiave” e cerchi (disperatamente) un qualsivoglia filo di coordinamento, di conduzione della campagna, di progetto aggregante… per trovare solo singole individualità in cerca di una posizione e visibilità.
Scrive Massimo Melica http://www.massimomelica.net/il-declino-della-popolarita-su-facebook-twitter/ : Sarà una visione opinabile ma riscontro che i paradigmi della comunicazione sui social network stanno cambiando: se un tempo si desiderava raggiungere la popolarità attraverso un ampio numero di contatti, adesso si cerca di sfoltire il numero degli amici o dei follower alla ricerca della qualità del confronto, tralasciando ogni strategia volta ad ottenere visibilità. Su Facebook il motivo può essere strettamente legato ai costi che la piattaforma richiede per “promuovere” il proprio post, un tempo bastava pubblicarlo per vivere nell’illusione di esser letti, adesso devi pagare per garantirti un numero di visualizzazioni maggiore che, comunque, resterà insufficiente rispetto alle aspettative. Ovvio che parliamo sempre di visualizzazioni e non di effettive letture. Sembrano sopiti gli entusiasmi del 2008 che vedevano sia in un Facebook quale strumento di democrazia e partecipazione sia in Twitter quale mezzo rivoluzionario capace di guidare la primavera araba; in realtà poi conclusasi con l’adozione di una carta costituzionale pericolosamente ispirata alle rigide norme della Shari’a. Altra motivazione, largamente diffusa tra gli utenti, è che il modello della visibilità e della popolarità a tutti i costi sembra ormai in declino, i social network hanno assunto la connotazione di arene in cui si massacra l’interlocutore, in cui si litiga, in cui è terminato quello spirito di pacifica condivisione finalizzata al costruttivo scambio di opinioni. I social network dovevano essere la liturgia per una nuova dialettica, in realtà sono rimasti schiacciati: - da una parte dai gruppi in cui si consumano furibonde discussioni e in cui ognuno difende, spesso nell’irrazionalità più totale, la propria idea; - dall’altra in scarne tweetterate o peggio in una estenuante caccia al tweet dell’ idiota di turno – spesso politico o soubrette – da ridicolizzare per poi esporlo come se fosse un trofeo su Facebook. La finalità intrinseca nel termine “net-work” ossia “lavoro in rete” ormai è del tutto depauperata in ogni suo significato. Spero che i social network non abbiano iniziato quella naturale parabola discendente che, disciplina in modo severo, i tempi dell’economia digitale; tanto per fare un esempio: Second Life, ICQ, Napster, MySpace sono state piattaforme che hanno ricoperto un ruolo di primissimo piano nel web per poi finire in disuso o peggio dimenticate. L’Uomo digitale sembra indirizzato, dopo un primo profondo innamoramento, ad allontanarsi dalla massa mediatica ritrovando il piacere di soluzioni digitali più riflessive, di nicchia ma di sicuro radicamento nella conoscenza dei navigatori.
Se da una parte ci sono tuttavia intelligenti spunti di riflessione nell’articolo di Massimo Melica, su un tendenziale declino dei social network – dell’uso direi più che del mezzo in sé – il rischio di questo declino va anche ricercato nella mancanza di contenuti. E quando questa campagna finirà, moriranno anche i tanti siti e profili creati solo per questo scopo, e forse ci disintossicheremo un po’ tutti dalla smania di commenti che nessuno legge più, e della caccia al post accattivante che durerà una mezza giornata. Surclassati da articoli su blog anche di poche righe pur di essere sul pezzo, anche i blogger potranno tornare a qualche articolo in cui si spenda qualche minuto in più in riflessione e qualcuno in meno a scrivere.
Forse, un giorno arriveremo anche noi a personalità politiche che non si candidano all’ultimo momento per cavlcare le onde popolari, e riusciremo ad avere progetti seri che richiedono anni di lavoro, e la costruzione di un consenso reale. Con parole davvero nuove, che siano declinate con sintassi differenti. Forse, quel giorno, davvero nascerà qualcosa di aggregante nel web, senza facili consensi ed entusiasmi, e con un modo di fare partecipazione che sia non più uno sfogatoio ma un valore collettivo.