Lettera alla mia generazione
La mia generazione ha perso, scriveva Gaber – seppure nelle molte cose che ha fatto e che ha visto. La mia generazione ha perso, dovremmo dire anche noi, ma per ragioni ben diverse. La differenza tuttavia dovremmo avere il coraggio di chiamarla per nome: la nostra generazione ha perso proprio perché quella dei nostri padri ha perso. Ha perso la sfida di modernizzare il paese, di cambiare il modo di fare politica, per una volta costruendo sulle ragioni che ci uniscono e non scavando ulteriormente il solco di ciò che ci divide. La mia generazione ha perso, perché la generazione dei nostri padri ha pensato ad un modello di benessere per sé e non a costruire un sistema sostenibile per noi, e per tutti. La mia generazione ha perso, perché ha assimilato il modello dei nostri genitori, di una società fatta di posti fissi, di lavoro sotto casa, nello stesso quartiere. Ha assunto su di sé l’idea che stabilità fosse investire una vita intera con un mutuo sulle spalle per acquistare un immobile, che ci si dovesse laureare per forza, tutti, e in breve tempo, senza perdere il tempo “fuori casa”, viaggiando e “conoscendo” altri modelli. La loro generazione ha perso perché non ha superato del tutto il modello dei loro padri, proponendo dinamiche diverse, ma la mia generazione ha perso perché non si è posta nemmeno il problema di quale fosse il suo ruolo nella storia. La mia generazione ha perso perché si è assopita, anestetizzata in un benessere fittizio di cui oggi deve pagare il conto, per sé e per la generazione precedente. Ma la mia generazione perderà ancora se fuggirà da questa responsabilità lasciando questo debito, con gli interessi, sulle spalle della generazione che verrà dopo. La mia generazione ha perso rinunciando agli slanci, non accettando la sfida del rischio delle passioni e degli occhi aperti sul mondo, per restare qui, a credere in modelli ereditati, e senza metterli in discussione alimentarli, di linfa denaro e risorse.
Cosa accadrebbe, oggi, se i giovani della mia generazione – che poi tanto giovani non lo siamo più – dicessero semplicemente basta. Non ci interessa il posto fisso per elemosinare il quale dobbiamo regalare dieci anni “ai vecchi” nelle professioni, e altrettanti di precariato; non ci interessa chinare il capo per ricevere chissà quando un posto pubblico e uno stipendio fisso – unica condizione per accedere al vostro modello di banca, per avere un mutuo trentennale che ci consenta di comprare da voi che ne avete una, una “casa fissa” per continuare a restare fissi e fermi qui immobili a che nulla cambi e possa cambiare. Cosa accadrebbe se “questo paese non ci piace” e ce ne andiamo altrove, tenetevi le vostre case, le vostre pensioni che non avremo la possibilità di vedere noi mai, e …pagatevele da soli se siete capaci – perché se non ci date le condizioni per un lavoro, come li paghiamo i contributi che servono per le vostre pensioni? Cosa accadrebbe se cominciassimo a muoverci, a vedere che forse altrove si sorride, che la vita è dura e chiede sacrificio, ma può anche essere colorata e possibile. Cosa accadrebbe se ci svegliassimo da un torpore che serve a voi – di quella generazione – a tenerci ancorati “alla casa” per farvi da badanti – e questa cosa la chiamate affetto, e dobbiamo anche dirvi grazie perché “ci sostenete” in un mondo difficile… dimenticando sempre che quel mondo lo avete fatto voi!
Cosa accadrebbe se scegliessimo – la mia generazione – di cominciare a pensare a quale mondo e quale modello avremmo voluto e non ci è stato dato – e cominciassimo a realizzarlo mettendo banalmente in discussone tutto – e non più per noi, che abbiamo perso, ma per i nostri figli, che ancora possono “vincere”. Cosa accadrebbe se non acquistassimo i vostri prodotti a rate, se non accettassimo di portare la borsa del professore universitario che non va in pensione mai, se smettessimo di fare praticantato a vita in uno studio per poche monetine nella speranza, un giorno, di essere noi lì… inesorabilmente a fare lo stesso con la generazione dei nostri figli… nella convinzione bigotta che così è, così è sempre stato e così deve necessariamente essere…
Beh, certo, per fare tutto questo la mia generazione dovrebbe rinunciare a ciò che già conosce, a modelli comodi, agli abiti firmati a tutti i costi. Ma soprattutto dovremmo rinunciare a vedere come un diritto ed il solo accettabile un lavoro sotto casa, a dover essere dirigenti solo perché “per i nostri genitori siamo dei geni” – che poi altro non è che un modo per tenerci stretti. Dovremmo accettare il lavoro come uno strumento, che non significa rinunciare alle proprie passioni e aspirazioni morali, ma nel rispetto di ciò che esso comporta prima di tutto: fatica e sacrificio. Dovremmo partire per esempio dall’idea che l’anestetico di un lavoro intellettuale come unico possibile, altro non è che un vincolo, che ci rende dipendenti da chi invece è disposto a compiere un lavoro manuale, ed al contempo è un modo per tenerci dipendenti dalla generazione dei nostri padri. Dovremmo considerare valore non la paga o il ruolo sociale, ma la dignità del lavoro in quanto costruzione e non costruzione di una società diversa da quella attuale.
Ecco. Se compissimo questa rivoluzione, non avremmo perso. Non passeremo alla storia come una generazione di venduti al prezzo di un apparente benessere al cui altare abbiamo sacrificato la nostra realizzazione generazionale. Perché dire che la nostra generazione ha perso, significa dire che non ha mai avuto una sua identità, un suo significato, una propria autonomia, e una propria idea. Si, è vero. Nessuno della generazione precedente abbiamo sentito mai chiederci scusa, collettivamente e singolarmente, per ciò che ci hanno consegnato come mondo, e per i valori e tempi e modi sbagliati con cui ci hanno inculcato. Ma questa non può essere l’attenuante per non chiedere noi stessi a nostra volta perdono, a noi e ai nostri figli, per non aver aperto gli occhi ed aver scelto di rischiare di cercare un altro modo possibile. Né oggi è il tempo delle facili assoluzioni tramite l’apparente partecipazione che altro non è che il riempimento delle fila del pubblico di chi sventola parole di cambiamento, mentre la sua età anagrafica rivendica vendetta, se non per essere stata parte attiva a questo stato di cose, senza dubbio per essere stato peggio: connivente passivo.
Ecco. Quello che dovremmo cercare – nella sua semplicità e difficoltà – è di realizzare oggi il migliore mondo auspicabile. E un figlio, per diventare grande, non ha altra via che tagliare il cordone ombelicale, e prendere la sua strada senza nessuno che ti tenga per mano, e per questo legato, per quanto apparentemente a fin di bene, per evitare possibili cadute. Ricercare di realizzare il migliore mondo auspicabile richiede una partenza che non contempla di restare ancorati in un porto apparentemente sicuro, e di correre il rischio del mare, della tempesta, e di una nuova alba.
Se falliremo, beh, almeno avremo tentato. L’alternativa è restare ciò che siamo: una generazione che ha perso. Ma questa generazione che non ha futuro e non sa nemmeno declinare cosa sia un futuro anche solo immaginabile come diverso, da quello che appare un esito e un destino inamovibile, forse non è capace nemmeno di comprendere che cosa voglia dire “avere perso”. Perché per perdere la chance di trasformare il migliore futuro auspicabile in un reale futuro possibile bisogna almeno, e quanto meno, saperlo immaginare. E non può immaginare nulla un popolo di spettatori.