Le verità sul caso dei Marò
Come spesso accade in vicende particolarmente complesse sul piano giuridico e tecnico, si affollano le persone che sfruttano con messaggi semplicistici e banali per fare propaganda politica e far leva sulla “pancia” nazionale e sui sentimenti nazionalistici – che noi riscopriamo a fasi decisamente alterne, in occasioni di mondiali di calci, olimpiadi e pochi altri momenti. Uno di questi è il caso del Marò – ovvero due fucilieri del battaglione San Marco, impegnati in un’azione “anti pirateria”. Ma la vicenda è complessa, e né un plastico di Bruno Vespa né i frammenti di notizia in un telegiornale hanno spiegato la questione, lasciando più spazio a posizioni di parte ed alla strumentalizzazione politica. E allora nella pacatezza di un post su un blog, e senza l’arrogante presunzione di essere esaustivo e dire “tutto il dicibile” proviamo a “dire” come stanno le cose, sotto il profilo tecnico e giuridico. L'invito è e vuole essere a non strumentalizzare la vicenda di questi due uomini a nessun fine, e non giocare con le loro sorti, e questo vale per tutte le parti in causa, e soprattutto per certi giornalisti.
Già i termini della missione sono atipici. non si tratta di militari a bordo di una nave militare, immediatamente riconoscibile come tale, e subordinati ad una precisa gerarchia di comando a bordo. No, come fossero mercenari privati, sono a bordo (complessivamente in sei) di una nave mercantile, battente bandiera italiana, con una linea di comando civile, che risponde all’armatore della nave, in servizio di “scorta e protezione”.
I Fatti Il 15 febbraio 2012 la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Alle 16:30 circa ore locali l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony (il peschereccio indiano con a bordo 11 persone) ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni). La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Il fatto e la circostanza viene confermato dall’Enrica Lexie e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi, in India. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione.
Il quadro militare dell’operazione Si tratta di un’operazione che rientra nell’ambito del decreto NMP (nuclei militari di protezione) voluti dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa, con decreto del 12 luglio 2011. Al comandante di ciascun NMP ed al personale da esso dipendente sono attribuite, rispettivamente, le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria,e di agente di polizia giudiziaria riguardo ai reati sulla pirateria previsti dagli articoli 1135 e 1136 del Codice della navigazione. Gli armatori provvedono al ristoro dei corrispondenti oneri, mediante versamenti all'entrata del bilancio dello Stato entro sessanta giorni. Insomma, una sorta di “noleggio” di personale di protezione da parte dello Stato Italiano, che però successivamente al decreto “dimentica” di stabilire un protocollo chiaro di regole di ingaggio – ovvero della catena di comando e dell’iter procedurale per la determinazione di ciascuna azione militare. Abbiamo quindi una situazione preliminare in cui a bordo ed al comando di una nave civile e privata, in teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano.
La competenza giuridica e territoriale. Il diritto marittimo è uno dei più antichi del mondo, anche per la sua rilevanza storica che si perde nella notte dei tempi e nella memoria dell’uomo. In sé, per quanto estremamente tecnico e più volte modificato (spesso più sulla base dei rapporti di forza che non per precise ragioni tecniche o di chiarezza) ha regole abbastanza precise e poco interpretabili. Col termine acque territoriali o mare territoriale si considera in diritto internazionale quella porzione di mare adiacente alla costa degli Stati; su questa parte di mare lo Stato esercita la propria sovranità territoriale in modo del tutto analogo al territorio corrispondente alla terraferma, con alcuni limiti. Il principio del mare territoriale si contrappone al generico principio consolidato in secoli di storia del mare libero, affermatosi grazie ai Paesi Bassi e che permetteva l'uso delle acque in via generale a tutti senza la possibilità di poter bloccare commerci e transiti altrui. La disciplina e la regolamentazione delle acque territoriali, prima rimessa quasi esclusivamente alle consuetudini internazionali, è stata poi regolata da alcune convenzioni, come la Convenzione di Ginevra sul mare territoriale e la zona contigua del 1958 e la Convenzione di Montego Bay del 1982, quest'ultima attualmente in vigore
In base alle consuetudini internazionali, l'ampiezza di tale porzione di mare era stabilita in 3 miglia marine dalla costa (corrispondente alla gittata media dei cannoni), ma alcuni Stati rivendicavano ampiezze maggiori, fino a 200 miglia marine dalla costa. La Convenzione di Montego Bay stabilisce che ogni Stato è libero di stabilire l'ampiezza delle proprie acque territoriali, fino ad una ampiezza massima di 12 miglia marine, misurate a partire dalla linea di base (articolo 3 Convenzione di Montego Bay). La linea di base corrisponde alla linea di bassa marea lungo la costa, "come indicato dalle carte nautiche a grande scala ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero" (articolo 5 Convenzione di Montego Bay); in caso la costa sia frastagliata o vi siano isole nelle sue immediate vicinanze, la Convenzione (articolo 7) indica criteri specifici per tracciare la linea di base.
Sul mare territoriale (inclusi suolo e sottosuolo marino) lo Stato costiero esercita la propria sovranità in modo pressoché esclusivo, con due importanti limiti: - lo Stato costiero non può impedire il passaggio inoffensivo di navi mercantili o da guerra straniere (i sottomarini devono navigare in emersione ed esponendo la bandiera), purché tale passaggio "non arrechi pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero" (articolo 19 Convenzione di Montego Bay); lo stesso articolo stabilisce che il passaggio deve considerarsi "offensivo" qualora la nave straniera minacci o impieghi la forza, compia atti di spionaggio, violi le regole doganali, fiscali, sanitarie o relative all'immigrazione, interferisca con le comunicazioni costiere, inquini le acque in maniera grave ed intenzionale.
Il passaggio deve comunque avvenire rispettando le norme interne dello Stato costiero, in particolare quelle in materia di trasporto e navigazione;
- lo Stato costiero non può esercitare la propria legislazione penale in relazione a fatti commessi a bordo di navi straniere, ad eccezione di alcune ipotesi (articolo 27 Convenzione di Montego Bay):
- se le conseguenze del reato si estendono allo Stato costiero;
- se il reato è di natura tale, da recare pregiudizio alla pace dello Stato costiero o al buon ordine del suo mare territoriale;
- se l'intervento delle autorità locali è richiesto dal comandante della nave o da una autorità diplomatica dello Stato di bandiera della nave;
- se l'intervento è necessario per reprimere un traffico illecito di stupefacenti.
Le acque internazionali costituiscono una res communis omnium, cioè un bene appartenente a tutti: qualsiasi Stato, anche privo di sbocco al mare, ha piena libertà di navigazione e di sorvolo, nonché di posare cavi o condotte sottomarine, costruire isole artificiali e altre installazioni purché autorizzate dal diritto internazionale; ogni Stato ha inoltre piena libertà di pesca e di ricerca scientifica. Ogni Stato esercita in via esclusiva la giurisdizione sulle proprie navi, ma in alcuni casi uno Stato può esercitare la propria giurisdizione su navi straniere in navigazione nelle acque internazionali:
- lo Stato può fermare e abbordare navi straniere al fine di accertarne la nazionalità, o per verificare che la nave non compia atti di pirateria, di commercio di schiavi o altre attività illecite stabilite dall'articolo 110 Convenzione di Montego Bay; tuttavia, se il sospetto sull'attività svolta dalla nave o sulla sua nazionalità si rivela infondato, lo Stato che ha proceduto all'abbordaggio deve risarcire i danni e le perdite provocate;
- ogni Stato può catturare qualsiasi nave, mercantile o da guerra, impegnata in atti di pirateria o di commercio di schiavi, ed esercitare la propria giurisdizione penale sull'equipaggio;
- ogni Stato può inseguire e catturare navi sospettate di aver violato le proprie leggi nelle sue acque interne, nel suo mare territoriale o nella sua zona contigua, nei modi stabiliti dall'articolo 111 Convenzione di Montego Bay.
A parte queste ipotesi, uno Stato non può fermare o abbordare navi battenti bandiera straniera; inoltre, ogni qual volta si esercitano operazioni coercitive su navi straniere, l'uso della forza può avvenire solo in ultima istanza e in misura ragionevole sulla base delle circostanze del caso.
La giurisdizione nel caso della Enrica Lexie La prima tesi portata avanti dalla diplomazia italiana, supportata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate “rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India.
Nonostante la confusione causata dal campanilismo e dalla partigianeria della quasi totalità degli organi di informazione di entrambi i paesi (tutti a ripetere le informazioni di parte senza che nessuno si prendesse la briga di cercare né fonti né riscontri!), la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. Punto.
Vi è di più, per stabilire con precisione la competenza. La posizione dell'India sulla «zona contigua», ribadita dalla Corte suprema di New Delhi afferma che «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Anche in quest'occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l'India l'incidente "non è avvenuto in acque territoriali", senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l'incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella "zona contigua", sulla quale l'India - intesa come nazione tutta - rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale.
Va da ultimo precisato che – nonostante ed al di là delle posizioni della stampa – tale ricostruzione sia della competenza, che del punto nave, che della giurisdizione, non sono messe in discussione dal Ministero degli Esteri, dall’avvocatura della Marina Militare, e quindi dal Governo Italiano. Tutto questo è già accettato dall’Italia, e nonostante ed al di là di quanto sostiene la stampa.
Chi ha sparato Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony.
Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo».
Nonostante questa affermazione, non solo “alla stampa” ma confermata agli atti e sottoscritta come accertata “e non più in discussione”, in Italia la speculazione politica ha portato a fantasiose ricostruzioni, tra cui un precedente inventato e mai documentato su un “episodio simile” avvenuto ai danni di due navi, una greca ed una indonesiana, negli stessi giorni. Sono spuntate perizie (non richieste, non ufficiali, e non legali) basate su frammenti di immagini di telegiornali che hanno messo in discussione finanche il calibro dei proiettili usati, senza che nessuno di coloro che hanno scritto queste “perizie” avesse esaminato il peschereccio, i corpi dei pescatori uccisi, le armi in questione. Ed a questi presunti studi, spacciati spesso giocando su ambiguità terminologica come “perizie” come se fossero agli atti del processo, è stato dato ampio richiamo sulla stampa e di conseguenza su queste affermazioni si è “composta” una certa opinione pubblica.
In attesa del processo Sono due i punti fermi 1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali, e la competenza è esclusiva del tribunale federale di Nuova Delhi 2) i due marò hanno sparato. Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali. A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India. La sentenza della Corte Suprema di New Delhi dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale. E data la rilevanza di questo diritto per tutti i Paesi, la stessa Unione Europea ha scelto di “non entrare nel merito della questione” così come l’ONU che si è espressa in ambiguo “augurio che i due paesi sappiano dirimere la controversia in maniera pacifica”.
Il dato certo è che il lavoro della difesa italiana e quello dei giudici indiani è fortemente messo sotto pressione da ricostruzioni false, di parte, fuorvianti e intrise da entrambe le parti di strumentalizzazioni a fini politici ed elettorali di parte. E ciò ancora una volta evidenzia la poca lungimiranza e lo scarso senso del diritto e dell’interesse dello Stato da parte delle (rispettive) classi dirigenti. Da un punto di vista sostanziale, anche la querelle recente sul rientro o meno entro la data concordata rientra in questa campagna di strumentalizzazione in cui ci si dimentica che sono sotto processo, per accuse molto gravi, sono due fucilieri, che hanno agito nell’ambito di un decreto ambiguo, a bordo di una nave civile, senza precise regole di ingaggio, ed a tutela di un carico privato. I militari italiani dovevano rientrare in India entro il 21 e sono rientrati in India entro il 21. Nessuno nel Governo, se non nell’ambito di opinioni espresse a titolo personale, ha mai inteso la non-restituzione dei due indagati soggetti a procedimento penale.
È stata la stampa a montare una questione che non si poneva, e che come hanno specificato i giudici della procura militare, in intesa con la magistratura indiana, i due fucilieri di marina sono stati sentiti, interrogati ulteriormente, e denunciati (per giunta) per violata consegna. A ciò si aggiunge la polemica su eventuali assicurazioni sull’esito della sentenza da parte indiana, assicurazioni che non possono essere date in alcun modo anche perché ancora nessuna corte speciale è stata nominata e costituita né è chiaro quale sia il codice che verrà applicato da parte indiana e quindi non se ne conoscono nemmeno le pene previste. Di certo esistono alcuni dati: la convenzione per cui la pena può essere scontata in patria (molto probabile) purché mantenuta nei modi e nelle forme in adempimento della sentenza, e di certo nessuno può essere sottoposto ad una pena non riconosciuta nel proprio stato (tortura, pena di morte etc)
In assenza di classi dirigenti serie e responsabili, io credo che in questa fase i giudici sia indiani che della procura militare italiana, e molti funzionari del corpo diplomatico, stanno congiuntamente svolgendo un iper lavoro per sopperire e bilanciare le spinte – anche violente ed estremiste – delle rispettive opinioni pubbliche, fomentate ed alimentate da fantasiose ricostruzioni giornalistiche. E tutto questo di certo non aiuta le posizioni giudiziarie dei due militari. E forse proprio per la complessità, giuridica e procedurale, di questa vicenda, sarebbe il caso che tutti tacessero un po’ di più ed avessero maggiore fiducia e dessero maggiore serenità a chi, per competenza e conoscenza, è preposto a risolvere questa controversia.