L'agenda digitale in Italia
Il titolo del documento è di quelli da cui ti aspetti una rivoluzione epocale della Pubblica Amministrazione “Linee guida nazionali per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico”. Circa cento pagine redatte dall'Agenzia per l'Italia Digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Come si legge nell'introduzione “Risulta cruciale avviare opportune politiche di valorizzazione dei dati pubblici attraverso la definizione di una strategia nazionale. L’obiettivo principale del presente documento è di fornire indicazioni operative per l’implementazione della strategia nazionale di valorizzazione del patrimonio informativo pubblico.”
Questo documento dovrebbe contenere appunto le linee guida per “l’individuazione degli standard tecnici, compresa la determinazione delle ontologie dei servizi e dei dati, le procedure e le modalità di attuazione delle disposizioni del Capo V del Codice dell’Amministrazione Digitale con l’obiettivo di rendere il processo omogeneo a livello nazionale, efficiente ed efficace.”
E tuttavia emergono almeno due elementi significativi che qualificano concretamente lo stato della nostra Agenda Digitale e radiografano la nostra arretratezza.
Il documento è costretto a citare oltre sette pagine di normative regionali, spesso con obiettivi da raggiungere completamente differenti, segno che non c'è una visione di insieme e nemmeno di “cosa sia” e a cosa serva o debba servire il web, quali opportunità apra, quali problemi possa risolvere. Siamo ben lontani da avere un quadro unitario nazionale.
Oltre venticinque pagine del documento sono dedicate a glossari, vocabolari, spiegazioni concettuali, segno della consapevolezza dell'analfabetismo informatico delle
amministrazioni periferiche e addirittura della necessità – ancora – di concordare con definizioni uniche e univoche per creare un vocabolario e un linguaggio digitale unico della e nella pubblica amministrazione.
Si legge nel documento “escludendo i dati a conoscibilità limitata (come le opere d'ingegno coperte dal diritto d'autore, i dati personali), oggetto delle presenti linee guida è il dato pubblico, cioè il dato della pubblica amministrazione conoscibile da chiunque e non soggetto a restrizioni temporali.”
Spesso quando parliamo di “open data” non è chiaro né a cosa ci riferiamo né in che modo il web possa costituire un risparmio economico o una concreta utilità. E allora proviamo a fare qualche esempio concreto basato sull'esperienza di ciò che avviene in altri paesi.
In Inghilterra le imprese pagano i diritti annuali online con una decina sterline, modificano gratuitamente i dati dell'azienda, richiedono un certificato che arriva in tempo reale in pdf con appena una sterlina. Tecnicamente non esiste la struttura delle nostre Camere di Commercio e il sistema viene gestito con un risparmio del 92%.
In molte regioni della Francia i cittadini possono ottenere gratuitamente copie dei propri certificati anagrafici, di residenza, e tutta la documentazione richiesta per licenze e autorizzazioni, a costo zero e in tempo reale, mentre in tutto il Paese è possibile inviare la propria dichiarazione dei redditi per via informatica, e non le nostre venti pagine di “modello unico” ma appena quattro.
In Belgio, Olanda e Lussemburgo esistono standard per consentire ai cittadini non solo di prenotare online le proprie visite mediche, anche specialistiche – in liste uniche che impediscono a qualcuno di “superare la fila” - ma anche di ricevere in modo sicuro i risultati via mail, e semmai per quella via mandarli in visione al proprio medico curante.
In Germania è possibile pagare online da dieci anni non solo le multe e le bollette delle utenze, ma anche contestarle, inviare le letture dei contatori, segnalare disservizi. In Danimarca, Svezia e Norvegia è possibile consultare le mappe catastali, i registri immobiliari, e avviare le normali pratiche per le ristrutturazioni di casa. Il tutto con pochissimi costi per i cittadini, proporzionati al risparmio – enorme – della pubblica amministrazione.
Le chiavi di volta di queste “buone pratiche” di altri paesi di un'Europa di cui facciamo parte anche noi risiedono tuttavia semplicemente in un approccio sistematico differente e non certo al progresso tecnologico, soprattutto perché tutti ormai hanno gli stessi strumenti.
Se leggessimo le relazioni omologhe di quei governi scopriremmo che un capitolo come il “5.1.1. Coordinamento tra livello nazionale e livello locale” sarebbe inimmaginabile lasciarlo “vuoto” con al dicitura “Inserire raccomandazioni per un possibile coordinamento tra il livello nazionale e quello locale nel caso di produzione e pubblicazione di dati dello stesso tipo” perché la cosa in sé sarebbe elemento centrale considerato acquisito.
Sarebbe inimmaginabile uno Stato – anche dove c'è un'organizzazione fortemente federale come in Inghilterra e Germania – privo di una politica strategica infrastrutturale unitaria, e che consideri suo compito preciso creare una “rete unica” idonea alla effettiva erogazione del servizio che le amministrazioni devono offrire. E quindi non stupisce che nei paesi citati i cittadini viaggino normalmente a non meno di 11 volte la velocità cui siamo abituati noi.
Perché, e questo è un secondo aspetto, un servizio è effettivo quando è anche accessibile, ed il suo accesso è garantito, a parità di condizioni, ovunque in uno stesso Paese, senza distinzioni tra chi vive al sud, al nord, in città, in periferia o in campagna.
Gli aspetti positivi di questa relazione sono che finalmente si tenta un approccio unitario di coordinamento nazionale, che finalmente i dati delle pubbliche amministrazioni vengano considerati una risorsa sia in termini economici (di incasso da una parte e di risparmio dall'altra), che si cerchi di affrontare un problema relativo ad oltre 16mila centri di “detenzione dati” (tra comuni, pubbliche amministrazioni ed enti vari) semmai anche nell'ottica di unificarli parzialmente riducendo i costi e aumentando efficienza e sicurezza.
Le lacune invece sono evidentissime nel non sapere ancora “quali” dati siano oggetto di pubblicazione, emerge la mancanza di riferimenti a quanto concerne il governo centrale e i relativi dati (sono ad esempio citati i portali regionali ma non quello nazionale dati.gov.it). Manca l'indicazione di un “paniere minimo” di dati che le amministrazioni periferiche debbano, semmai anche in tempi precisi, mettere in rete e fornire ai cittadini in termini di servizi derivati.
Il “colpo di grazia” al documento è offerto dalle cinque pagine di bibliografia. Una tipicità del nostro sistema, mutuato dal mondo accademico universitario, per cui l'autorevolezza è data dalla estrema tecnicità del linguaggio – ai confini dell'intraducibile – e dalla sua solidità in termini di fonti. In realtà nel mondo anglosassone la lettura sarebbe esattamente opposta: non dici cose nuove ma riprendi “il già detto” e se non sei comprensibile da chi beneficerà della tua relazione allora non è utile ai destinatari. L'approccio non è una mera questione semantica, ma riflette una metodologia di lavoro criticata da più parti. Chi sta mettendo mano agli open data e ne sta progettando il sistema di fruizione pubblica, lo sta facendo “al chiuso di una stanza” in un ente altrettanto chiuso, con un approccio tipicamente accademico, che difficilmente porterà a scelte “semplici”, di effettiva semplificazione amministrativa, e potrebbe finanche trovare una forte dicotomia con la realtà tecnologica, fatta da operatori del settore che sarebbero tanto disponibili a collaborare per realizzare un sistema migliore quanto contemporaneamente ne sono tagliati fuori.
Eppure l'esperienza insegna che ogni qualvolta un sistema di semplificazione e accesso della pubblica amministrazione ha funzionato è stato in quei paesi in cui attorno allo stesso tavolo un governo aveva le idee chiare sul “cosa” fare e sugli obiettivi da raggiungere, e i tecnici e gli operatori privati hanno lavorato a trovare e proporre le migliori soluzioni in termini di costi, benefici, opportunità e funzionalità. Anche – e forse soprattutto questa – è la differenza di approccio che segna un gap difficilmente colmabile in Italia.
Il 18 aprile il premier Renzi ha dichiarato “Sarà una autentica rivoluzione. Immaginate che tutte le Regioni mettano online tutte le spese sulla sanità e immaginate dei ragazzini che sviluppino delle applicazioni per analizzare i dati” aggiungendo “se gli enti locali e centrali non pubblicano tutti i dati, compresa la spesa per comprare un telefonino a un assessore, noi riduciamo i trasferimenti” con una scadenza precisa: entro sessanta giorni. Eppure basterebbe aprire finalmente Siope, la banca dati dei pagamenti della Pubblica Amministrazione, nata in collaborazione tra la Ragioneria Generale dello Stato, la Banca d’Italia e l’Istat, dove c’è già tutto. Ci si potrebbe quindi concentrare su un'unica piattaforma, con un unico standard, cui tutte le pubbliche amministrazioni potrebbero comunicare in maniera uniforme.
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