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Michele Di Salvo
21 Oct

Il PD tra primarie regionali e realpolitik nazionale

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  Politica, pd, partito democratico, primarie, Renzi, Calabria, Campania, Napoli

Il PD tra primarie regionali e realpolitik nazionale

La situazione del pd calabrese è forse più complessa oggi che prima delle primarie, quando si sfidarono Gianluca Callipo, renziano, e Mario Oliverio. Se torniamo a leggere la politica fatta sui territori, c'è sempre meno localismo e sempre più politica nazionale, e questo non sempre è un bene proprio per quei territori.
Che le partite regionali avessero a che fare molto più col governo, con la maggioranza nel pd, con gli equilibri che sostengono l'esecutivo di Matteo Renzi lo avevamo intuito da tempo. La prima partita ha toccato la Sardegna. Era l'inizio e la cosa è passata un po' in sordina. Al diavolo le primarie e le questioni locali – in quel caso comunque le primarie le aveva vinte una renziana – Matteo chiede un passo indietro e diventa candidato prima e governatore poi un nome che nessuno aveva votato: l'ottimo (c'è da dirlo) Pigliaru. È stata poi la volta della Toscana dove però Enrico Rossi aveva fatto valere il "lodo Renzi", quel principio espresso dal premier, che ancora non aveva vinto le primarie e si ricandidò a sindaco di Firenze affermando che "non ci sono primarie tra primo e secondo mandato". La cosa andò giù storta, essendo Rossi ben poco vicino al premier, ma tant'è. È stata poi la volta dell'Emilia Romagna, fuori calendario date le dimissioni di Vasco Errani. Renzi le primarie non le voleva, nella regione rossa più ricca d'Italia sostenendo una linea "di forza" che, in nome dell'unità, vedesse un "suo" nome di mediazione. Mal gli colse, perchè Bonaccini, inviato per mediare, si è candidato e si è corso il rischio di una sfida tra renziani, in cui probabilmente avrebbe prevalso chi avesse raccolto l'appoggio di bersaniani e civatiani. Un appoggio che sarebbe pesato a livello nazionale, esattamente quello che il premier-segretario non voleva. Accade quindi che in una notte Richetti "ha cambiato idea". Nessuno sa cosa è accaduto quella notte, ma tutti sappiamo come "il renziano della prima ora più renziano di Renzi" oggi a ruota libera sferzi il premier. Anche questa è storia.
Le dolenti note al premier-segretario vengono però dal sud e si chiamano Campania e Calabria. In Campania la questione è delicata, perché si mischia inesorabilmente con due vicende: Bagnoli, protagonista del maxidecreto che di fatto estromette la politica locale da ogni decisione su un area di 1200 ettari e che vale 50miliardi di euro di fondi, e Napoli, con il caso arcidonoto di De Magistris "sindaco sospeso". Su Napoli i dem punterebbero a dimissioni, cosa molto improbabile visto che per il sindaco-sospeso la partita si chiude a gennaio, quando causa prescrizione non ci sarà legge Severino che tenga, e il sindaco-vittimizzato da incaute campagne sarà più forte di prima, rafforzato dalla sua abilità di essere "uomo di lotta" ben più che "uomo di governo". Sempre in Campania, la Fonderia che doveva incoronare la neo classe dirigente renziana con un plebiscito su un loro candidato alla Regione si è conclusa con un nulla di fatto. La partita – al di là delle candidature in campo per puro egocentrismo e autopromozione – parrebbe a due: De Luca e Cozzolino. Il primo, cui Renzi deve la vittoria nel partito alle primarie di novembre, è però appena stato condannato a tre anni, ed ha già perso cinque anni fa contro lo stesso Caldoro. Il secondo, signore indiscusso di voti e tessere, che in realtà sogna il Comune, è poco ben visto a Roma, ed in parte anche a Napoli. Nessun candidato esplicitamente renziano quindi, e la partita vorrebbe essere giocata con un bel commissariamento dall'alto che con un colpo di spugna chiuda primarie e partito e imponga un nome, sempre nella cara vecchia esigenza di "unità".
In Calabria la situazione è più complicata. Qui le primarie, a fatica, con sole due settimane di campagna elettorale, dopo un estenuante tira e molla, si sono fatte. E Mario Oliverio le ha vinte pienamente. Contro tutto e tutti, c'è anche da dirlo. Qui vanno spiegate alcune cose. Il Governo nazionale si regge su soli nove voti al Senato, sostanzialmente quelli di Udc-Ncd. Quelli di Tonino Gentile, già nominato sottosegretario e poi subito rimosso, che minaccia di lasciare con i suoi il Ncd per tornare nelle grazie di Forza Italia in caso di mancato apparentamento alle regionali delle sua regione, appunto la Calabria. Ciò fa sì che, mentre Callipo – renziano – e ufficialmente Magorno (segretario regionale – senza maggioranza - e deputato anche lui renziano) dicano "mai con Ncd e Udc", a Roma Guerini – che ha a cuore il Governo – spinga Oliverio, che non vuole, ad un accordo (elettoralmente suicida) con il partito che fu (e che è) di Scopelliti.
Ricordate il Governo Prodi? Dipendeva anche lui da due soli voti in Senato. Uno dei due era di Tommaso Sodano, attuale vicesindaco di Napoli, eletto da nessuno, nominato da De Magistris: oggi è sindaco reggente e ad interim a capo della "città metropolitana". Ora come allora pochissimi voti reggono la politica nazionale, e farsi benedire politica, territori, programmi e quant'altro.
È la realpolitik. Quella per cui ci sono i Lotti e i Guerini. Non è un male, è un fatto. Com'è un fatto che l'arte di posticipare, rimandare, prendere tempo, fare saltare le direzioni regionali, spostare le date di primarie, delocalizzare le riunioni, rischia di far perdere tempo prezioso alle campagne elettorali "vere". Sempre che non ci sia un'altra strategia: se non si salvaguarda il governo tramite alleanze, lo si tutela perdendo questa o quella regione. E in questa logica, sempre di pura e cinica realpolitik, tutto, anche l'apparentemente incomprensibile, acquisisce un senso nuovo.

PD Campania, e il bisogno di avere coraggio

Dopo la Fonderia, che da idea di grande momento propulsivo è stata ridotta a convention-passerella che doveva dare visibilità a qualcuno e incoronare unanimemente qualcun altro, ciò che resta del pd campano è una drammatica fotografia di storie trite e storicizzate che poco o nulla hanno a che vedere con la risposta alla necessità di una classe dirigente nuova e forte e autorevole da più parti auspicata e di cui la Campania tutta avrebbe bisogno. Il dibattito "verso le primarie" si può sintetizzare in una sfida a due tra Andrea Cozzolino e Vincenzo De Luca, signori di tessere e voti, con poco consenso diffuso. Chiariamo anche due candidati che, a conoscere la politica romana, nessuno vuole davvero. Il vero assente in questa sfida è il coraggio. E quando manca quello, anche da chi a parole afferma di voler osare, di buttare il cuore oltre l'ostacolo, di voler cambiare verso alle cose, di chi dice di voler seguire le orme di Matteo Renzi, allora il quadro è davvero completo.
Troppe le cose che si danno per scontate: si da per certa una vittoria (che scontata non è), si da per certo che Caldoro perda, si da per scontato che vinca il centro sinistra con "chiunque candidi". Un'arrogante presunzione che non tiene conto del fatto che dove così si è pensato (da Bologna con Guazzaloca, a Genova e Napoli due anni fa e Livorno, Perugia solo per citare casi recenti e macroscopici) in realtà si è sempre inesorabilmente perso. E senza tenere conto di troppi fattori, primo tra tutti il forte scollamento tra le persone e la politica, la forte spinta di protesta, la voglia di volti e nomi nuovi e soprattutto di idee di largo respiro. In questa fase il vero latitante è il coraggio, proprio da quei giovani da cui dovrebbe venire qualche "sogno" in più e qualche calcolo politico da vecchia politica in meno.
Sarebbe bello, buono, auspicabile, che tra le candidature qualcuno "osasse davvero", senza lavorare nei circoli romani per "affondare" le primarie sperando in un nome altro imposto da Roma su cui mettere il cappello per dimostrare che "esisto e conto". Sarebbe il caso che tutte le componenti che non raggiungono da sole le diciassettemila firme necessarie (un'enormità irrazionale) proponessero qualcuno che "se la giochi e se la rischi" sul serio, puntando al massimo risultato politico possibile che non è una percentuale, ma la dimostrazione che il Pd è un partito vivo, che ha energie vere, al di là di clientele e storie politiche decennali. Che esistono giovani che non temono di perdere e che combattono battaglie per il solo fatto che vale la pena che vengano combattute.
Dimostrare che c'è del nuovo, dell'altro, e che esistono altre proposte... cinque, dieci candidature, che siano alternative ai "due big" sarebbe una buona notizia per il pd, sarebbe una sfida costruttiva e portatrice di ricchezza e contenuti, e dimostrerebbe che la Campania non è ingessata su blocchi di interessi contrapposti, e soprattutto riuscirebbe a scardinare l'idea che debba essere uno dei due a vincere, perché comunque nessuno, da solo, avrebbe la maggioranza assoluta. La precondizione per tutto questo sarebbe un coraggio, una voglia di rischiare, una voglia di partecipare, una capacità di non avere timore di una sconfitta e la mancanza del calcolo politico di "stare col vincitore" di cui questa regione ha bisogno. E sarebbe anche l'occasione per non aspettare, come spesso accade, che siano altri, nella fattispecie Roma, a risolvere i nostri problemi, semmai con imposizioni salvifiche dall'alto che poi con poca efficacia ci affretteremo tutti a condannare per salvare la faccia. Su questo sfondo però anche una considerazione più vasta sui cd. renziani campani, in evidente difficoltà: dopo aver puntato su un consenso plebiscitario, non hanno un candidato capace (o che abbia voglia) di affrontare sul serio la sfida di primarie vere e aperte, a meno che la loro non sia una candidatura imposta da Roma. Ed anche questo è un elemento che deve far riflette. Anche perché, puntare ancora una volta su una candidatura apparentemente unitaria, senza passare per le primarie, sarebbe solo l'ennesimo sedativo alle battaglie interne, e sarebbe il colpo definitivo allo scollamento tra cittadini e partito, e l'ennesima pietra sulla chance di rinnovamento interno del partito locale.

il Roma - 20.10.2014

il Roma - 20.10.2014

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