La comunicazione politica dell'era renziana
Quando Matteo Renzi è diventato segretario, e poi premier, ci siamo a lungo soffermati sul descrivere le novità della sua comunicazione politica. Molte delle cose dette allora, e che erano sostanza nella logica politica e della segreteria, assumono un connotato differente oggi, che quella comunicazione, con quelle caratteristiche, assume la sostanza di "esecutivo".
Quando venne eletto segretario si parlò di un "pd con la sindrome di Alarico", il barbaro che entrava per devastare... è la sindrome del cambiamento, di una generazione nuova, tenuta in una pentola a pressione, e quando è saltato il coperchio ha certamente provocato anche effetti non previsti, né prevedibili, e taluno indesiderato. E tuttavia la responsabilità di tali effetti è ascrivibile a chi, come classe dirigente del partito, quegli effetti non li ha previstisi, e quella pentola l'ha trasformata in pentola a pressione.
Non tutte le rivoluzioni – o presunte tali – sono in sé buone o belle. E troppe volte in questi mesi la vera forza di Renzi è stata la stessa forza di Grillo: aver dato voce a un mondo che non l'aveva, ricevendone in cambio una fedeltà ed un seguito quasi assoluti ed acritici. Una forza quasi ultras, che abbiamo tutti visto ad esempio sul web, sui socialnetwork. Milioni di righe spese a difesa di qualsiasi scelta e provvedimento traboccanti da pagine facebook, blog, commenti e tweet.
Renzi è riuscito ad essere il simbolo di una generazione di "nati nel pd" – che non erano né pds, né ds, né margherita, né popolari – anche quando appoggiatissimo da "sempiterni giovani" di quelle storie (da Franceschini a Fioroni per citarne due, ma la lista è lunga): una generazione con cui ha stretto un patto non scritto che suona come "io sono la vostra chance, giù me giù voi".
Lo stesso patto di chi segue Grillo acriticamente, e che sa che senza il Beppe nazionalpopolare nessun Di Battista o Di Maio – per citare "i migliori" – avrebbe uno spazio superiore ad un consiglio di municipalità.
Ma se questa è la condizione primigenia – che possiamo considerare la base della nuova comunicazione politica in occidente, ovvero uno zoccolo duro di fedelissimi che "lottano per il leader" – resta una sola delle condizioni della leadership comunicativa del premier.
La seconda – che è essenziale – è l'assoluta mancanza di un'alternativa, qualsiasi alternativa, sia interna al pd sia esterna, in altri partiti o schieramenti. E questa condizione fa sì che in assenza di valide alternative, anche storcendo il naso quando è il caso, la gran parte del paese e dei commentatori politici, di fatto, finisca per fare da stampella e venire in soccorso al premier.
Renzi detta l'agenda. In tutti i sensi. Dalla semantica, al lessico, alla dialettica, ai contenuti, ai tempi delle riforme, alle priorità. Espressioni come "stai sereno" o "cambia verso" sia in forma diretta che in forma avversativa, sono ormai pezzi del linguaggio comune della politica. Se sembra poco da un punto di vista della comunicazione, citatemi un esempio di un altro politico che ci è riuscito negli ultimi vent'anni. E non è di poco conto se consideriamo la struttura della comunicazione politica dell'esecutivo, che per la prima volta segue la sintassi della politica "esecutiva" per eccellenza, quella americana.
Il Presidente lancia un tema, per una o due settimane quello è il tema, tutto il mondo politico e giornalistico parla di quel tema, alla fine la Casa Bianca "chiude" la discussione portando al voto il provvedimento. E lì tocca alla conta dei voti, ed a quanto i vari think-tank, le lobby, i cittadini, i sondaggi, hanno "spostato" in termini di voti e sensibilità, e quanto è o meno autorevole e popolare la Casa Bianca, in quel momento e su quel tema. Ma la similitudine finisce qui, e qui cominciano le divergenze, ed anche queste non sono di poco conto.
Renzi "sogna" quella politica, ma non può farla – che sia un bene o un male conta poco o nulla – e forse non potrà farla mai nessuno. E non è solo una questione di struttura della politica e della democrazia, ma soprattutto di società. Che non è quella delle serie tv tanto care alla generazione dei quarantenni. Ed anche di questo abbiamo già abbondantemente parlato.
Eppure sarebbe facile, pragmaticamente, scardinare l'agenda renziana.
Razionalmente basterebbe far notare che Renzi aveva annunciato quattro riforme in quattro mesi e non ne ha fatta nessuna in sette. Che aveva annunciato entro l'estate il pagamento di tutti i debiti della pubblica amministrazione, e dopo altri tre mesi non si vede l'obiettivo. Basterebbe dire che le stesse infografiche delle "cose fatte" sono poco più della rappresentazione della composizione del governo. Basterebbe far rilevare come gli 80euro per tutti sono meno della metà per il 30% dei destinatari obiettivo. Basterebbe dire che "nessuna manovra correttiva" di giugno sarà una manovra da 36miliardi di euro. Basterebbe dire che annunciare di aver fatto la "più grande riforma del lavoro" è lontanissimo dalla realtà di aver solo avuto la fiducia al senato su un testo di legge delega: che manca quindi la seconda aula, e poi il disegno di legge, che andrà letto, conosciuto, analizzato, poi votato, semmai emendato, e poi serviranno i decreti attuativi, i regolamenti attuativi, e le coperture economiche... e quindi di che parliamo? Perché se ne parlassimo scopriremmo che – tolte le garanzie di ciò che resta dell'articolo 18 – il rischio è che avremo finti contratti a tempo indeterminato che converranno perché a costo zero, e tra tre anni un'ondata di “cessazioni di rapporto” perché diventeranno troppo onerosi, ma tra tre anni il prezzo politico e sociale toccherà a qualcun altro, il solito “poi si vedrà”.
Tutto questo – che è sostanza – è ininfluente.
Dopo anni di governi che hanno fatto poco, spesso male, e comunicato malissimo, l'eccezionalità sta nella capacità di par passare al pubblico il contenuto del messaggio, anche quando la sostanza concreta a dir poco sta altrove.
E se far passare le cose dette e le obiezioni sollevate con la stessa efficacia con cui fa passare le sue intenzioni programmatiche Renzi, provateci pure. Io non vedo all'orizzonte né metodi efficaci né – e questo è ancor più grave – alcun leader capace di farlo.
Renzi non è riuscito solo a imporre un linguaggio, ma anche una sintesi grafica rappresentativa del suo programma. Basti pensare alle infografiche o alle slide che, nate per una forte viralizzazione sul web, sono sempre più riprese su tv e quotidiani come "elementi esplicativi".
Ed anche questo tema merita un'attenzione particolare: non si tratta di semplice forma, o di non adeguarsi, ma di comprendere che se questa è la linea comunicativa che "entra in casa e cattura il pubblico" è su questa stessa linea che un eventuale messaggio di opposizione si deve muovere, e ne deve essere capace. Ma la facile via di fuga para-intellettuale per cui "io non mi banalizzo" è semplice ammissione di incapacità politica comunicativa.
Sin qui possiamo sintetizzare che la forza di efficacia di Matteo Renzi si poggia su una estrema semplificazione, uno zoccolo duro di attivisti "personali" e la totale mancanza di leader di opposizione interna o esterna altrettanto efficaci.
Le cose se possibile si mettono peggio quando tocchiamo il tasto "partito".
Se la linea di "americanizzare" la comunicazione politica, e la sintassi della politica, ha qualcosa di efficace, e perché no anche di migliorativo nella gestione del consenso, immaginare un partito italiano su quel modello è dimostrazione quasi moretttiana di parlare di qualcosa che non si conosce. Diversamente sarebbe grave e pericoloso.
Intanto gli Stati Uniti sono uno stato federale con oltre 300milioni di abitanti. Mediamente quindici anni avanti a noi in termini di penetrazione del consumo digitale di massa e della relativa fruizione dei servizi e delle prassi anche del dibattito e dell'influenza politica.
Nella lunga tradizione dei grandi partiti – che sono due solo sulla carta, ma ogni partito democratico e ogni partito repubblicano ne contiene in sé almeno cento differenti – la struttura è leggera, federale, ab origine strutturata col finanziamento privato, con rigide e rigorosissime leggi sul finanziamento e sulla trasparenza dei versamenti. Ma soprattutto tutto l'impianto della rappresentanza – piramidale e nient'affatto liquida e orizzontale – è retta sul sistema della selezione permanente della classe dirigente. Si eleggono sceriffi, sindaci, consigli comunali e di distretto, governatori e parlamenti anche di contea, sino alle cariche della magistratura, e sino – alla fine – al Congresso ed al Senato. Soprattutto il sistema delle elezioni congressuali ogni due anni rendono il ricambio, la verifica ed il rapporto coi cittadini strettissimo. In quel sistema, le campagne sono tutte in crowfunding, vuoi che si parli dello sceriffo vuoi del Presidente. Lo si faceva ieri, lo si fa ancora oggi e meglio con il web.
Ma le abitudini, i metodi, i modi di una politica fatta di deputati che rispondono alle mail e suoi social e si creano uno staff ad hoc, e che ricevono i cittadini costantemente, non si importano solo a metà.
Non si può immaginare che le persone finanzino un partito, che diventa dalla sera alla mattina "leggero", e contemporaneamente nel quale altrove, e non con le primarie di quartiere, vengono decisi i consiglieri comunale e su sino ai deputati.
Dietro questo paravento di "partito cloud" si mal cela solo la demolizione della struttura associativa, che quella sì rischia di mettere a rischio il leaderismo.
Che la forma partito debba cambiare è fuori discussione, così come del resto sono cambiati i luoghi e i temi di discussione, che non sono più le sezioni, i circoli, ma i forum tematici e i dibattiti diretti, i commenti interattivi sui social, le mailing list. Che le leadership non nascano più verticalmente nella struttura novencentesca è sotto gli occhi di tutti, come anche che le nuove forme di aggregazione e dibattito creino leader con maggiore seguito. E tuttavia non si può certo affidare la politica a chi riesce a mettere insieme un gruppo più o meno folto di investitori o di fan ultrattivi che ne amplifichino la ridondanza e il messaggio. E del resto è anche questa la lezione della parabola renziana. Di un prodotto politico nato nella politica, che a 39 anni ne ha già venti di attività politica alle spalle. E che non ha certo messo in piedi happening nazionali come la Leopolda con crowfunding spontaneo o con i follower sui social.
Il rischio concreto è che quindi le leadership nascano rispondendo a precisi gruppi di interessi, e che siano questi ultimi il motore organizzativo e finanziario della crescita e dei tramonti politici.
Non è certo riesumando e svecchiando vecchi protagonisti di un'altra classe dirigente che si crea un leader capace di replicare pariteticamente alla comunicazione renziana. Proprio da questa considerazione nasce la debolezza strutturale di qualsiasi idea di opposizione che appartenga ad una generazione diversa da quella di Matteo Renzi, e che veda protagonisti sinora distanti e che non abbiano una comunicazione non-mediata.
Se un paragone va fatto con la politica americana – che sembra andare molto di moda come modello – è proprio dall'esempio di Obama che si dovrà ripartire: un modello di coraggio e di sfida, anche quando le previsioni non danno per favoriti. Una scommessa costruita, che parta da lontano, e che punti su un forte radicamento con la base.
Se ci avviamo anche noi ad una politica di leaderismi capaci di essere attrattori di consenso vasto, massivo, e di riportare le persone a svolgere un ruolo anche di propaganda attiva, è sullo stesso grado di efficacia della comunicazione diretta che andrà sfidato Renzi. E non c'è spazio per il ricco imprenditore al servizio per il bene della patria, non c'è spazio per le iper-presenze televisive, né per le paginate di intervista sui giornali.
La strada, in questo senso, è ancora molto lunga, ed anche questo va annoverato tra gli indiscutibili vantaggi di cui gode il premier. Ed anche per questo, perché la costruzione dei suoi oppositori passa necessariamente dalla riproposizione speculare della sintassi comunicativa, che ancora una volta trasforma Renzi in protagonista anche della sua antitesi.
Nel fare gli auguri per i novantanni di Scalfari Renzi disse "e se l'alternativa a me stesso fossi ancora io?" nel bene o nel male era meno battuta di quello che può sembrare. Per battere Renzi occorre crederci, essere efficace, saper immaginare un terreno proprio, e non quello di chi segue le domande ed il percorso scelto dall'intervistatore, dettare la propria sintassi e la propria agenda anche politica, oltre che tematica, e soprattutto avere coraggio di essere e apparire Davide che sfida Golia. Esattamente il collante che ha portato tantissimi giovani a supportarlo quando nessuno avrebbe puntato nulla su quel sindaco di Firenze che sfidava Bersani e tutto l'establishment del Partito Democratico. Sembra un'era geologica fa. Sono passati nemmeno due anni.
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