Renzi, il calo nei sondaggi e la nuova agenda politica
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A leggere l'editoriale di Ilvo Diamanti su Repubblica, il calo di gradimento del premier sembra quasi una "caduta degli dei". Scrive Diamanti: "La fiducia nel governo scivola al 43%, 13 punti in meno in un mese. Molto al di sotto della maggioranza degli elettori. Anche il gradimento personale del premier scende sensibilmente, di 10 punti." E aggiunge "il calo di popolarità del premier e del governo, però, appare particolarmente significativo perché, a differenza di quanto si era osservato settembre, stavolta si riflette anche sul piano elettorale. Il Pd, infatti, nelle stime di voto, scivola dal 41% al 36,3%. Sempre molto, visto che, alle politiche, aveva raggiunto, al massimo, il 33%, nel 2008. E nel 2013 si era fermato al 25%. Ma si tratta, comunque, quasi 5 punti meno di un mese fa"
Dall'altra parte "Risalgono anche se di poco, Forza Italia, Sel, insieme alle formazioni della sinistra critica e i Centristi, mentre il M5S è stabile, intorno al 20%. Ma il vero progresso, in questa fase, è realizzato dalla Lega, che si avvicina all’11%. Proseguendo nella tendenza espansiva che dura ormai da mesi."
Secono il politologo tali dati di ripresa suggeriscono "il ritorno della concorrenza, in un mercato elettorale a lungo mono-polarizzato da Renzi. Il quale, oggi, sembra aver perduto appeal nei confronti delle altre aree politiche. Come mostra l’evoluzione della fiducia verso il governo fra i principali elettorati. In particolare, a centro- destra. Fra gli elettori di Fi: l’indice di fiducia in Renzi cala, infatti, di 17 punti, dal 46% al 29%. E di 13 punti nella base leghista: dal 41% al 28%."
Ed è forse questo il dato più significativo da cui partire, e che spiega molto della politica del premier intrapresa nelle ultime due settimane.
La parabola di Matteo Renzi comincia con le primarie del 2012 perse contro Bersani, e la successiva cd. "non vittoria" del centro sinistra alle elezioni del 2013. Il premier non ha mai smesso di fare campagna elettorale, sia internamente che all'esterno, il che ha fatto sì che sostanzialmente le successive "primarie aperte" per la scelta del nuovo segretario fossero un plebiscito, innanzitutto interno al partito democratico, senza alcuna vera alternativa.
Questo ha fatto sì che Matteo Renzi non solo è stato facilmente eletto segretario, ma ha "portato a casa" percentuali bulgare sia in assemblea nazionale che in direzione, consentendogli di realizzare una prima segreteria "monocolore" indispensabile per raggiungere palazzo Chigi senza troppe opposizioni interne. La sua strategia successiva è stata una sorta di "normalizzazione", sia con l'apertura e allargamento della segreteria del pd sia con ampie disponibilità in seno al governo.
La sua lunga campagna elettorale lo ha proiettato come leader politico "taumaturgico e messianico", l'unico in grado di compiere riforme interne al partito prima e nel governo e nel paese dopo, riforme comunicate come irrimandabili, indispensabili, salvifiche.
Se nel 2012 Renzi poteva affermare che "solo il 3% dei segretari lo appoggiava", dopo appena nove mesi è stato appoggiato dal 70% dei parlamentari e dal 65% degli organi dirigenti locali. Un partito renzianizzato quindi, in cui non si è vista una sola direzione in cui il premier non abbia ottenuto un risultato plebiscitario, ed in cui non sia passata un'immagine monolitica in cui le minoranze dissenzienti o critiche diventavano nella percezione collettiva "pezzi di un piccolo mondo antico" velleitario e storicizzato.
Matteo Renzi premier ha ricevuto un "capitale politico" importante dalle elezioni europee, quando con uno storico 40,8% ha proseguito se non addirittura intensificato una comunicazione politica improntata alla "indispensabilità e onnipotenza". Si è passati dall'annuncio di quattro riforme in quattro mesi alla rivoluzione in materia di diritto del lavoro, alla legge elettorale, nel periodo di massima visibilità internazionale offerto dalle nomine nella nuova commissione europea e dal semestre di presidenza.
E tuttavia è stata proprio questa scelta comunicativa che invece di "essere al servizio" dell'azione politica è finita con il diventare "il metronomo dell'agenda politica". Un inseguimento dell'accelerazione a tutti i costi, quasi un effetto socialnetwork: dover per forza dire qualcosa e "tirare fuori" un nuovo status, una nuova icona, una nuova foto, tutti i giorni, finendo con il sostituire i sondaggi politici con "l'effetto klout", ovvero la misurazione della propria popolarità nel web.
Per i novantanni di Scalfari il premier disse al fondatore di Repubblica "e se l'alternativa a me fossi io stesso?". Erano altri tempi politici, questi si alla velocità dei socialnetwork. E in quella frase era contenuto il vero punto debole della comunicazione renziana.
La "rivoluzione permanente" e l'accelerazione "necessaria" per non restare indietro rispetto a se stesso – ovvero il rischio che il premier di governo potesse addirittura apparire "più lento" della sua stessa comunicazione politica e sociale – si reggevano all'epoca su un dato di fatto: Matteo Renzi era semplicemente solo. Non c'era alcun vero antagonista interno, nessun ombra di leadership capace di sostituirlo all'interno del Pd, sia come segretario sia come premier. E non c'era nemmeno in lontananza alcuna vera leadership esterna, in altri partiti o capace di aggregare attorno a sé altri partiti o movimenti per costruire un'alternativa elettorale.
Da un lato il premier perde dieci punti, e il pd "solo" cinque. E qui sta una prima smentita, e cioè che sia Renzi in sé che cresce più del partito e che il partito salga o scenda nei sondaggi in maniera direttamente proporzionale e conseguenziale al suo leader.
Dieci punti di gradimento persi sostanzialmente perché è impossibile coniugare la comunicazione politica e l'amministrazione concreta, con la doppia immagine di "lotta e di governo" permanente.
Quando le riforme si arenano, la crescita non si realizza – anche solo perché viene meno la percezione psicologica che davvero le cose siano stabilmente migliorate – e quando si comprende che i decreti non bastano, ma occorrono regolamenti, decreti attuativi... e quando si comprende che una delega sul lavoro non significa aver già cambiato il mondo del lavoro... aver "venduto al mercato elettorale" l'uomo solo capace di rivoluzionare il paese quasi con la bacchetta magica viene meno. I super poteri, l'onnipotenza, la taumaturgia, diventano un boomerang comunicativo verso il paese. Se lo traducessimo in un dialogo è come se oggi il popolo elettorale dicesse al premier "non hai opposizione interna, sei segretario assoluto nel tuo partito, premier incontrastato, adesso non hai scuse, e sono deluso dai nove mesi di governo". Senza alibi né attenuanti.
Dall'altro quel calo sotto la soglia – anche solo psicologica – del 50%, al 43%, 13 punti in meno in un solo mese, è dovuta al venir meno della condizione iniziale: Matteo Renzi comincia a non essere più solo. Se l'alternativa un anno fa era Berlusconi, oggi si chiama Salvini, ma anche Fitto, Meloni. Indipendentemente da "un singolo nome" (in testa il segretario della lega, ben distanziato di venti punti) quello che emerge è il tema di un dibattito che vede il nascere di nuove leadership – anche solo di contrapposizione – capaci di attrarre elettorato, in modo particolare quello moderato e storicamente di centrodestra, che invece aveva scelto Renzi, fosse anche solo come argine strumentale all'avanzata del voto di protesta interpretato da Grillo.
Quella cui assisteremo è un'agenda politica anomala ma chiara: da un lato accelerare nelle riforme istituzionali, per mostrare con chiarezza "il proprio programma", dall'altro modulare e limare la legge elettorale in vista di una sua rapida approvazione per tornare quanto prima alle urne.
Le motivazioni politiche saranno probabilmente l'impossibilità di portare a termine concretamente le riforme avviate ed annunciate, a causa di una parte del pd, dei sindacati, degli alleati, e quant'altro. Ma ve ne sono almeno due che pesano maggiormente.
Sul fronte interno, la spinta di molti renziani rimasti fuori dal parlamento e che non vedono l'ora di entrarci, semmai a discapito di altri "da rottamare", e la possibilità concreta sondaggi alla mano – ma sempre più sottile – di accedere con il 40% a quel 55% che garantirebbe un governo per la prima volta monolitico e monocolore, e non è poco. Il tutto prima che possa nascere e crescere un'alternativa credibile sul fronte interno. E il tutto anche prima che – come avvenne con Bersani – parte degli eletti del partito possano immaginare di “cambiare nuovamente la bandiera interna”.
Sul fronte esterno, impedire che nascano e si consolidino leadership alternative, anche a costo di "tenere in vita artificialmente" quel Silvio Berlusconi ancora incandidabile per legge, e quindi utile, soprattutto a congelare quel processo di trasformazione – semmai con primarie di coalizione – che renda anche il centro destra finalmente moderno, dinamico meno padronale e più europeo.
Sullo sfondo la partita istituzionale: votare prima che Napolitano si dimetta, facendo quindi eleggere il nuovo Capo dello Stato al nuovo parlamento, insieme con la seconda e terza carica dello Stato, e garantendo la nascita di un governo monocolore e decisamente poco allargato capace di quella velocità di "intenti e azioni" così cara al premier, garantendo quindi una stabilità almeno numerica, valida per cinque anni.
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