Perchè sostengo #menogiornalimenoliberi
C'è una campagna in questi giorni che sta navigando "un po' sotto traccia".
Si tratta di #menogiornalimenoliberi. Esistono vari motivi per cui non sta avendo la viralità che merita, ma ci torneremo...
Qui vi propongo l'intervista che mi ha fatto Claudio Silvestri per il Quotidiano Roma, uscita giovedì scorso. E di seguito una piccola nota aggiuntiva sul tema e su questa campagna.
Argomento non nuovo, che affrontai già nel 2012 in questo articolo cercando di argomentare al di là del populismo con cui spesso viene toccato e affrontato questo tema.
Perchè, come dico nell'intervista che segue "Chi cavalca l'onda dell'abolizione del finanziamento pubblico da un lato non sa di cosa parla, e dall'altro cerca un facile consenso parlando alla pancia delle persone. In sé due caratteristiche proprie di chi teme una libera e plurale informazione."
Perché sostengo #menogiornalimenoliberi.
La sostengo "per interesse personale", dichiaratamente. Perché "da più giornali" io ci guadagno. E ci guadagniamo tutti. Si tratta di quei giornali che danno spazio a quelle notizie che non trovano spazi. Sono quei giornali che hanno fatto si che quando avevano percentuali da prefisso telefonico alcuni partiti esistessero (e la democrazia è fatta di coesistenza delle minoranze). Oggi si chiamavano Lega, M5S, negli anni venti Pci e Psi, per non parlare dei tempi in cui per difendere il pluralismo è esistita la "stampa clandestina".
Sono quei giornali che alimentano il dibattito, che spesso rappresentano le opinioni con cui non siamo d'accordo: qualche volta ci aprono la testa, altre ci rafforzano nella giustezza delle nostre idee.
Ora noi possiamo discutere di concetti astratti bellissimi, e che in teoria funzionano alla grande: basta carrozzoni, resiste chi merita, se non hai mercato è giusto che chiudi, etc etc. Si, sono tutti ragionamenti che funzionano “sulla carta”.
Perché un mercato funziona se le regole sono quelle di mercato: e allora ne riparleremo quando avremo il coraggio vero di chiedere riforme vere: tetti alla concentrazione pubblicitaria, tetti alla distribuzione, limiti alla concentrazione delle testate, non sovrapponibilità tra locale e nazionale, etc etc. ma di tutto questo – che è materia tecnica – non si discute mai, scegliendo di riempire la bocca delle persone col qualunquismo dei fondi pubblici sprecati come fosse assistenzialismo.
Qui si sta parlando di oltre 200 testate, di diecimila posti di lavoro in gioco, e al di là delle “balle in rete”, di circa 50milioni di euro... e se queste testate dovessero chiudere, tra posti di lavoro, contributi non versati, tasse non incassate, cassa integrazione, ci costerebbero circa il triplo. E allora anche solo matematicamente mi chiedo “cosa convenga di più, conti alla mano?”
Ma soprattutto, domani, lo spazio di libertà e democrazia che perdiamo, chi ce lo ridà? Come ce lo riprendiamo, una volta che tutto questo non ci sarà più?
A chi si lamenta della nostra informazione, e del fatto che siamo all'ennesimo posto nelle classifiche, e da colpe al finanziamento pubblico io ricordo che in Francia il finanziamento pubblico dell'editoria e dell'informazione è pari a 18,77 euro a cittadino, in Gran Bretagna 11,68 euro, in Germania 6,15 euro... e da noi 0,94 euro. Forse è questo il motivo per cui in quei paesi, dove la democrazia è decisamente più brillante, si chiede anche di più alla stampa ed al rigore dell'informazione, ma lo si paga. E forse scopriremo che siamo così in basso in quelle classifiche, non per il nostro giornalismo (anche) ma soprattutto per leggi come la Gasparri, come il SIC, come le concentrazioni di mercato, come l'accesso alle professioni... e perché “non c'è una vera e strutturale garanzia di indipendenza offerta da un contributo pubblico” [il virgolettato non è mio, ma di freedomhouse che realizza quelle classifiche!]
E allora si, parliamone di riforme, di tempi a scalare, di contributi progressivi, di regole e rigore.
Ma mettendo mano a tutto il comparto, non solo ad un pezzo che avvantaggerebbe i grandi e priverebbe tutti noi di un pezzo importante di libertà, spazio, pluralismo e informazione.
Il fondo per l'editoria è ridotto al lumicino e copre poco più del 20% del fabbisogno. Questo ha messo in ginocchio più di 200 testate giornalistiche no profit. Se la situazione resta questa, le testate saranno costrette a chiudere e in strada andranno circa 3mila giornalisti, senza contare l'indotto. Se si realizzasse questa ipotesi, l'informazione in Italia resterebbe solo nelle mani di quattro gruppi editoriali. Non ritiene che questo sia un rischio per la libertà di stampa?
Oltre che una minaccia per la libertà si stampa, è soprattutto un rischio concreto per il pluralismo dell'informazione, che mina alla base un duplice diritto – per altro costituzionale – del cittadino: essere informato e potersi liberamente informare. È per questo che gli edicolanti non possono rifiutarsi di prendere un quotidiano in distribuzione, ed è questa la ratio su cui si basa il contributo.
Per altro c'è una tripla anomalia nel nostro sistema. Resterebbero quattro o cinque gruppi, ma non di editori puri, ma di soggetti legati a banche e gruppi industriali, per cui l'informazione finisce con l'essere l'house-organ di interessi specifici. Non c'è alcun limite alla separazione tra testate locali e nazionali, il che si traduce in una doppia pressione sia sull'opinione pubblica in generale sia sulle amministrazioni locali. Infine non c'è un limite alla raccolta pubblicitaria, il che in sé impedisce la nascita e la sopravvivenza di altri soggetti.
Nove associazioni di categoria hanno lanciano una campagna per fare pressione sul Governo e approvare una nuova legge sull'editoria, una legge che preveda controlli rigidi, ma che garantisca i fondi necessari alla sopravvivenza dei giornali. Condivide questa iniziativa?
Mettere mano in maniera seria alla regolamentazione dell'informazione è qualcosa di molto delicato. Incide direttamente e profondamente sulla possibilità delle persone di essere informate, di leggere commenti ed opinioni, e di costruirsi una coscienza sociale e politica critica. I fondi sono "la parte finale" e vano a chiudere una riforma seria, e la definisco in qualche modo intervenendo a compensare le anomalie del settore. Per cui una vera riforma passa dall'incidere seriamente su quelle tre anomalie di cui parlavo prima. E ciò che resta va bilanciato con un fondo che tuteli le piccole testate, i giornali locali e le iniziative "indipendenti" dalle distorsioni dell'economia di mercato. Perché il settore dell'informazione non è paragonabile a settori come l'abbigliamento o le automobili. Almeno sino a che vogliamo definirci democrazia.
È vero che in passato alcuni hanno approfittato di questi fondi, ma questo sta diventando per una certa politica l'alibi per cancellare una voce di spesa che garantisce un diritto sancito dalla Costituzione. Lo stesso Presidente della Repubblica ha chiarito la necessità di tutelare l'autonomia dell'informazione.
Controlli più severi, leggi e soprattutto regolamenti attuativi più chiari, con meno scappatoie e interpretazioni, con sanzioni vere che rendano "antieconomica" la truffa, sono tutti passaggi sacrosanti. In primo luogo a garanzia di chi ha diritto a certi fondi. È paradossale, ma è come dire "dato che ci sono i falsi invalidi, aboliamo le pensioni di invalidità": un ragionamento che non sta evidentemente in piedi. Chi cavalca l'onda dell'abolizione del finanziamento pubblico da un lato non sa di cosa parla, e dall'altro cerca un facile consenso parlando alla pancia delle persone. In sé due caratteristiche proprie di chi teme una libera e plurale informazione.
La carta fondamentale dei diritti dell'Ue impegna ogni Paese a promuovere e garantire la libertà di espressione e di informazione. In altri Paesi dell'Unione questi finanziamenti vengono chiamati "fondi per la libertà di stampa". In Italia non è così. Secondo una ricerca dell'Università di Oxford l'Italia nel 2014 spende solo 30 cent procapite per la libertà di stampa. In Francia si spendono 18,77 euro a testa, in Gran Bretagna 11,68 euro, in Germania 6,51 euro. In Europa siamo ultimi.
Da noi la libertà di informazione è una "dichiarazione", non è un principio fondante della nostra cultura. Da noi, da prima dell'unità d'Italia, chiunque avesse un'idea politica e voleva esercitare pressioni "si apriva un giornale". In Inghilterra e Francia per esempio no, ma i giornali hanno sempre dato spazio – era loro interesse centrale farlo – a qualsiasi opinione e posizione politica. Il che ha fatto si che "la libertà di stampa fosse un valore". Provate oggi a non rispondere alle domande di un giornale in quei paesi: la vostra carriera politica è finita! I cittadini non lo accetterebbero. In democrazia il giornalismo è una sorta di "quinto ordine istituzionale", e come tale, come tutte le istituzioni, va tutelato e la sua autonomia rispetto agli altri poteri o ordini dello Stato va garantita. In più sono diritti, quelli di informazione ed espressione, che i paesi che "hanno memoria storica" riconoscono e ricordano essere stati conquistati duramente. E di certo non se ne privano oggi.
Tutta l'informazione locale, quella dei piccoli e dei grandi Comuni, è nelle mani delle società cooperative che vivono grazie al fondo pubblico. Senza questi soldi in Campania resterebbe solo il Mattino. Non le sembra una prospettiva inquietante?
Non mi pare che il Mattino se la passi benissimo, né che la strada per recuperare copie per i grossi (più che grandi) quotidiani possa passare dall'essere "gli unici". Anzi. È proprio la diversità dell'offerta che crea mercato. Ma una diversità che deve puntare anche a contenuti differenti, a dare notizie differenti e punti di vista differenti. Questo è il senso del pluralismo. La tristezza dei "titoli fotocopia" demotiva, esattamente come entrare in una strada piena di ristoranti diversi incentiva e invoglia a tornarci e a cambiare spesso per provare cose nuove, e semmai affezionarsi per confronto, oltre che per piacere o necessità.
Molti ritengono che la carta stampata debba scomparire perché non ha un mercato e che si debba puntare esclusivamente sul digitale. Questo significherebbe escludere dalla possibilità di scegliere e di informarsi tutta quella parte di popolazione che non ha accesso alla rete.
Con questa logica i giornali dovevano morire quando venne inventata la radio. Poi quando vennero i cinegiornali, ed essere un ricordo ai tempi della televisione. Archeologia con la televisione commerciale e con il satellite e il digitale terrestre. Non è stato così. E potrebbe non essere così a patto che i giornali assolvano il proprio ruolo come in passato, che sappiano adeguarsi a nuovi media, che sappiano rinnovare se stessi adeguando il proprio modello alle nuove velocità dell'informazione. Tornando al pluralismo, la forza del web sta nel fatto che esistono milioni di siti: la rete non sarebbe mai esistita solo con cinque o dieci siti web e Google non avrebbe nemmeno avuto senso. Nella sovrabbondanza di informazioni che ci offre la rete i giornali hanno due peculiarità proprie: il rapporto col territorio e l'autorevolezza della verifica dell'informazione professionale. Due cose che il web ha poco o per nulla, e comunque spesso male. Ecco, ripartire da queste caratteristiche proprie rinnova il senso del giornalismo, e quindi della sua forma che non è escluso vada integrata, rifondata, rimodulata. E questo prescinde da quanto e quanto velocemente crescerà l'accessibilità alla rete.