Cosa c'è dietro le primarie di Napoli
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Sinché ci soffermiamo a vedere le primarie come fenomeno locale, ovvero quello che dovrebbero essere, momento di partecipazione civile per la scelta di un candidato, ci lasciamo sfuggire il quadro complessivo di quello che sta avvenendo soprattutto nel Pd e il quadro nazionale.
Renzi è un po' come un gigante dai piedi d'argilla. Non ha soggetti politici capaci di sfidare la sua leadership nazionale, non solo all'estreno, ma anche e soprattutto all'interno del suo partito. E tuttavia questa sua forza si poggia sui piedi d'argilla di una debolezza territoriale impressionante. È il primo segretario eletto con meno del 50% tra gli iscritti. Per raggiungere la segreteria ha stretto patti locali con molti di coloro che sino a dieci mesi prima gli erano avversari, e spesso regalando nuova vita a veri e propri fantasmi politici.
Per consolidare la sua segreteria non ha esitato a traghettare – in maggioranza, segreteria e governo – i "giovani turchi", ovvero Orlando, Orfini, ma anche i neo-turchi Cozzolino, Valente, una volta fuoriusciti i vari Fassina.
E quando Gianni Cuperlo ha rinunciato alla presidenza del Pd non parve vero a Renzi di allargarsi inglobando la componente più attiva della minoranza, proponendo quel ruolo a Orfini, e per i giovani turchi occasione unica per guadagnarsi un ruolo di leadership nazionale.
È toccato a Matteo Orfini chiudere la vicenda Roma, archiviare Marino, e avviare un percorso vicino al segretario. Quest'ultimo ha provato in tutti i modi a creare una propria classe dirigente di matrice renziana: benedicendo da Gianluca Callipo nella sfida in Calabria, alla fonderia partenopea. Ma quasi ovunque la nascita di una classe dirigente è riuscita al massimo a metà, dovendo fare i conti con le realtà locali, e i piccoli interessi spesso determinanti. In Campania ad esempio la partita si è chiusa sul giovane neo-renziano De Luca (sic!), a discapito proprio di un giovane turco, Andrea Cozzolino. In qualche modo oggi la rivincita – o lo scambio – con Valeria Valente.
Se leggiamo queste vicende in questa ottica nazionale, appare evidente che la sfida interna al pd non è tra "renziani" e "sinistra interna" quanto tra Renzi, che non riesce fuori dalla Toscana a far emergere una classe dirigente nuova, e una componente della sua stessa maggioranza interna, i giovani turchi che, consapevoli della debolezza sui territori del premier, facendo alleanze e allargandosi a dismisura, consolidano la propria forza all'interno del partito partendo proprio da comuni e regioni. Davanti hanno due grandi vantaggi. Elezioni politiche ben lontane e tante elezioni amministrative per crescere. E crescendo mettere una forte ipoteca sulle quote delle elezioni politiche che verranno per la di fatto nomina dei parlamentari. Il tutto prima del prossimo congresso.
Quella in ballo a Napoli, in definitiva, non era – ancora una volta – la candidatura migliore per il Comune, alla cui sfida il pd si presenta lacerato, diviso, con una soglia vicina al 15% dei consensi, e per accedere al ballottaggio letteralmente in balia delle più improbabili alleanze. In gioco a Napoli c'era sostanzialmente "chi controlla il partito". E in questo caso la risposta è stata chiara e definitiva.
Se le primarie ammettono – e meriterebbero – ampi ricorsi e un'analisi approfondita e seria, la battaglia politica è invece chiara e definita. Tutt'altro che definitiva.
Di tutto questo probabilmente avevano contezza quei renziani della prima ora che hanno appoggiato Antonio Bassolino. Probabilmente il quadro generale è invece sfuggito proprio al premier. Che sotto Roma regala ampi spazi ad alleati che rischiano di diventare assai ingombranti.
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Chi muove i voti a Napoli e li porta in dote
Gianluca Abate e Simona Brandolini per il “Corriere della Sera”
I pacchetti di voti del Pd, a Napoli, si ereditano di padre in figlio. Sono una dote, un po' come il corredo, il servizio d' argento o l' orologio del nonno. Oppure come quel pacchetto iniziale di 18.000 preferenze che Franco Casillo - potente leader prima della Dc e poi della corrente demitiana della Margherita e del Pd - ha deciso di lasciare al figlio Mario.
Il quale, per non deludere il papà, ne ha ripercorso l' intera carriera politica (consigliere comunale a Boscoreale, assessore, consigliere regionale) fino a diventare una delle macchine da voto più potenti di Napoli e provincia.
Lo chiamano «l' uomo che sussurrava alle tessere», e non a caso. La sua gestione delle preferenze - in un sistema dove i consiglieri regionali contano più dei deputati e il potere è strutturato sul modello delle scatole cinesi - è capillare: controlla sindaci, assessori, presidenti dei parchi, consiglieri comunali e di municipalità. E, per assicurarsi che tutti votassero Valeria Valente, domenica scorsa ai seggi dell' area orientale di Napoli tra Ponticelli, San Giovanni e Barra ha mandato proprio un consigliere comunale suo fedelissimo: all' anagrafe è Aniello Esposito, ma con quel nome non lo conosce quasi nessuno. Lo chiamano Bobò , ed era il capogruppo del Pd al Comune di Napoli fino a quando i suoi colleghi di partito non l' hanno sfiduciato adducendo come (malevolo) pretesto la circostanza che «non riesce a esprimersi in maniera corretta in aula». Uno di quei colleghi, per ironia della sorte, se l' è ritrovato accanto proprio nel giorno delle primarie. È Tonino Borriello, il consigliere comunale che ha raccolto le firme per la candidatura di Antonio Bassolino ma che poi ha deciso di sostenere Valeria Valente. E che, davanti al seggio di San Giovanni, ha distribuito qualche euro agli elettori «per non essere scortese».
Il suo appoggio, Casillo, lo fa pesare: «Il mio elettorato non si sposta automaticamente, non è come giocare a Risiko che ti basta muovere i soldatini. Oggi il cittadino lo devi convincere, come è accaduto nel mio caso con Valeria Valente. Ho dovuto fare riunioni su riunioni perché i miei non la volevano votare, mica sono caproni». La fedeltà dei suoi «tesserati», alla fine, ha pagato. I voti per la candidata sono arrivati. E sono arrivati anche quelli promessi da Enza Amato, 38 anni, consigliera regionale della Campania eletta lo scorso giugno.
Cosa c'è fuori dal PD
Che la questione "primarie Napoli" non fosse una questione locale lo si era capito da mesi.
Male se qualcuno davvero può aver creduto che per una volta invece tale potesse essere.
E anche che la paura fa novanta è riecheggiato nell'aria, quando al solo "mi candido" di Antonio Bassolino, si sono spente all'istante auto candidature made-in-fonderia, certe di una benedizione del segretario. Se la sfida è "contro don Antonio" serviva qualcosa di più e di meglio. Che non è stato trovato. Semmai "un nome unico" su cui convergere per fare la somma delle componenti. Che però non hanno creato quel Jeeg Robot capace di abbattere il vecchio scalatore delle dolomiti napoletane.
Quella stessa paura torna oggi. Bassolino da uomo delle istituzioni e di partito due cose non farà: non si candiderà contro il Pd – che ha fondato – e non si candiderà offrendo se stesso come capro espiatorio di una sconfitta prevedibile.
Ma basta che si paventi la semplice idea di una sua lista – semmai in appoggio al Pd – che tutti tremano. E a buon diritto. Perchè? Perchè se non si arriva al ballottaggio all'area Pd toccherebbero circa 5 o 6 condiglieri. E se la lista di Bassolino ne prendesse la metà significherebbe per la classe dirigente trovarsi di fronte alla sentenza dell'inesistenza politica.
E quindi scatta la brillante idea "se ti candidi fuori dalla lista del pd" o anche se presenti una lista civica, anche forse in accordo ma fuori dal simbolo del pd, allora sei fuori dal Pd.
A me questa strana idea per cui "fuori dal pd" non ci sia nulla, ci sia il deserto, francamente non convince. E convince ancora meno questo strano modo di affrontare il dissenso e di rifuggire dall'affrontare i problemi.
Sono mesi che ci sentiamo ripetere un concetto simile a quella frase di Tom Cruise in nato il 4 luglio: "questo è il tuo paese, o lo ami o te ne vai" – come a dire "questo è il pd, o sei d'accordo o là sta la porta".
Ebbene il giochino non funziona per troppi motivi. Primo tra tutti che se fosse stato detto questo a Renzi o a tutte le minoranze interne negli ultimi dieci anni, non so dove sarebbe il pd oggi e dove sarebbero anche tutti gli altri.
Questa retorica non funziona anche per la legge dei numeri, perché se cominciamo a non prenderci in giro da soli scopriamo che in Basilicata vince Marcello Pittella, fuori dalle componenti. In Calabria vince Mario Oliverio, tutto meno che renziano. In Puglia vince Michele Emiliano (possiamo dire anche indipendentemente dal Pd) e certamente un renziano molto critico. In Campania vince De Luca, per 40mila voti di scarto, oltre 200mila di centrodestra tra le varie liste, e non certamente "giovane renziano rottamatore" che sino a dieci mesi prima era tutt'altro. E così a salire regione per regione, sino a quella Liguria regalata al centro destra per le divisioni interne e qualche fuoriuscita di troppo. Fino a quella Milano dove Sala vince di poco, e sempre grazie a divisioni politicamente poco comprensibili.
Quindi francamente quest'idea che "fuori dal pd" possa essere una "minaccia verso altri" è decisamente quantomeno miope. Perchè se nel centrosinistra senza il pd si perde, è altrettanto vero che senza quelle "minoranze" è il Pd a perdere, e sonoramente.
Certo, poi, è facile dire "se abbiamo perso è per colpa di chi se ne è andato". Ma semmai sarebbe più corretto dire "abbiamo perso per colpa di chi continua a far andare via".
Ma questa lungimiranza manca a chi si sente forte di quel 40% delle europee che considera dato assoluto e inoppugnabile. E invece i conti con la realtà vanno fatti, e fatti bene.
Soprattutto se partiamo dal caso Napoli, dove il Pd è al 15%, e verrebbe da rispondere a chi dice "la sta la porta" che "fuori dal pd c'è l'85%" dell'elettorato. Anche più si dovrebbe riflettere guardando alle persone. E quelle che "se ne vanno" sono proprio quelle che allargano il consenso, capaci di attrarre simpatie trasversali, di portare in dote un elettorato proprio, che il pd da solo non attrarrebbe.
Per quanto poco possa percentualmente contare, quella Sinistra Italiana – un pezzo del Pd – che va con de Magistris pesa, soprattutto in termini di opinione, così come la rottura dell'alleanza storica con Sel. E mal consola al popolo democratico il bilanciamento ingombrate e indigesto di eventuali alleati come Ncd, Ala, Udc, varie ed eventuali.
E allora se è vero che uniti si vince, oltre i semplici numeri anche e soprattutto nella logica dei contenuti e dei programmi, questi allontanamenti fanno male.
Soprattutto al tempo del voto personale fuori dalle ideologie, per cui le persone possono anche scegliere semplicemente di non andare a votare. E questo, a chi fa politica per il bene comune, dovrebbe essere qualcosa che fa male.
Purtroppo invece quella che prevale è una logica conservativa: la corsa alla cacciata per liberare posti e garantirsi collegi sicuri, "meno siamo e meglio stiamo" pensa qualcuno. E con questo lungimirante pensiero, ammantato da renzismo oltransista, rivende consigli pericolosi e detta linee ben lontane dalla realtà locale e dalle persone.
Siamo così sicuri che il problema delle primarie sia stata qualche monetina?