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Michele Di Salvo
06 Feb

People are media

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  libri, web, informazione, internet, socialnetwork

People are media
La nuova industria si chiama 4.0. Se l’industria 1.0 è quella legata all’introduzione dell’uso del vapore (che ha di fatto portato alla nascita della classe operaia come “nuova massa”), quella 2.0 nasce con l’uso di elettricità e combustibili fossili come forza motrice per le macchine, con la conseguente nascita delle catene di montaggio, trasformando profondamente la società stessa e le sue dinamiche.
L’industria 3.0 è quella “a noi contemporanea”, fatta di macchine progettate da macchine, con uomini che gestiscono la definizione e programmazione delle linee di produzione e distribuzione: è l’automatizzazione della produzione ma anche della società.
Uno dei passaggi salienti di questo libro - People are media - è proprio la definizione che i due autori ne danno della c’è. “Industria 4.0”: un’azienda piena di sensori che registrano tutto.
E, come per le altre fasi di industrializzazione, questa trasformazione non resta chiusa tra le mura nelle linee di produzione (mura che non esistono più) ma pervade l’intera società, trasforma le dinamiche interpersonali, non riguarda come vengono prodotti e distribuiti beni e servizi, ma entra con i prodotti stessi nelle nostre case.
Una innovazione che non solo fa parte del prodotto stesso, ma che è in sé il valore aggiunto e quasi l’essenza del “nuovo prodotto”.
Citando un’analisi di Roland Berger, nella sola Unione Europea c’è una richiesta di oltre 150mila nuovi “esperti informatici” ogni anno. Per fare cosa?
Progettare e gestire reti, per gestire e progettare prodotti “intelligenti”, come i frigoriferi che “ci diranno quello che sta scadendo, quello che è finito, quello che bisogna comprare e che magari lo compreranno da soli, ma allo stesso tempo riforniranno di dati e numeri le aziende produttrici”.
Secondo Gartner ad oggi sarebbero appena 6,4miliardi, destinati a diventare 20,4miliardi entro il 2020. “L’Internet of Things trend report punta sui 50 miliardi, per ottomila miliardi di dollari di valore nei prossimi dieci anni; 2,1 trilioni in innovazione e impianti, 1,9 trilioni nella catena di distribuzione, 1,2 trilioni in maggiore produttività, 700 miliardi in servizi aggiuntivi”.
Silvio Meazza e Aldo Agostinelli hanno più meriti per questo loro libro, che tutto è meno che un manuale per smanettoni o una guida da simil-guru sulle mirabilia che la rete e la tecnologia possono offrire rivoluzionando il mondo e svelando formule segrete per diventare tutti ricchi senza lavorare - come appare promettere la para biografia degli eroi del web e i titoli della maggiori parte delle pubblicazioni sulle nuove tecnologie.
Intanto è un’analisi seria - e divulgativa - delle tante evoluzioni che il web ed in particolare l’avvento dei social network ha comportato, non solo nel marketing e nelle dinamiche aziendali e della comunicazione, ma soprattutto nella società nel suo complesso e nel come l’individuo stesso, preso nella sua individualità, ne sia stato trasformato. Nei pensieri, nelle azioni quotidiane, nella comunicazione, ma ancor più profondamente nella sintassi individuale di leggere e interagire e comunicare la realtà.
Entrambi “ci raccontano” il web da un punto di vista italiano e europeo, e questo è un grande merito, perché il mondo delle nuove tecnologie ha tanto bisogno di un contributo analitico europeo, o quantomeno terzo, rispetto al monopolio ideologico - tanto a favore quanto contro - tutto americanocentrico.
Ed entrambi - cosa anche questa molto importante - analizzano il mondo dei social da un punto di vista personale e privilegia - ed anche per questo nuovo: non sono sociologi/psicologi/antropologi di accademia (che spesso più che analizzare e restituire sono pervasi dalla mania del dover-insegnare a tutti i costi); non sono giornalisti/commentatori/opinionisti (che dato che fa tanto trend e figo diciamo la nostra anche su questo, si sa mai...); e non sono “consulenti/venditoridicorsi/guru” (che scrivono il libro perché se non scrivi il libro non si vende la tua autorevolezza).
Sono semplicemente “due” che “il marketing nel web” lo hanno fatto, lo continuano a fare a livelli decisamente alti, e con maturità - e una buona dose di autocritica, anche professionale tra le righe - raccontano (ed è utile leggerli proprio per questo) vizi e virtù e scenari del web per come lo viviamo (e subiamo) oggi, e per come corriamo il serio rischio - pro e contro - che diventi domani.
A chi si aspetta un libro che indichi vie brevi per vendere sul web, semmai gratis o spendendo poco, non lo aprite nemmeno. Perchè invece ci si imbatte in affermazioni - più che condivisibili - come “essere aziende nell’era digitale non significa avere un sito web”, che un sito e un ecommerce in fondo te lo puoi fare anche da solo, e che su Facebook esisti se fai pubblicità, anche se paghi per spot parziali, visti per meno di un secondo.
Quello che c’è e che è giusto aspettarsi è una riflessione che sembra di leggere come fosse una chiacchierata tra amici in salotto, sulla presa d’atto che il futuro è di chi ha in mano “le piattaforme” - una battaglia che l’Europa ha di fatto perso, lasciandosi colonizzare completamente - e che la moneta vera con cui paghiamo i servizi che apparentemente sono gratis (come i social network) è la nostra privacy.
Ci volevano Agostinelli e Meazza a dircelo? No. Ma che due pubblicitari ci dicano che queste cose possono essere un problema - anche per le aziende - e che che ci stiamo trasformando in buyer influenzati spesso a nostra insaputa, e che finanche la nostra immagine su Facebook altro non è che l’avatar che scegliamo di indossare per apparire migliori di quello che siamo in realtà, o che in era di cyber bullismo “il digitale dà oggi al singolo la sensazione di poter avere un megafono in bocca e di poter parlare, acquisire una propria identità” e che “si tratta di un megafono a disposizione del nulla, ha voce chi una volta sarebbe semplicemente rimasto zitto”, sono cose che in ultima analisi fa bene anche la web.
Perchè sinora è stato drogato e venduto come “macchina di libertà e dove uno vale uno” in maniera troppo acritica... forse perchè ci faceva piacere, ci faceva - come consumatori e come individui - sentire più forti e più liberi e più partecipi, e senza accorgercene siamo invece diventati semplicemente un bancomat di dati e acquisti (anche politici) a chi ci faceva sentire “cyber qualcosa” o “cyber qualcuno” mentre siamo sempre più persone sole, che chiamano amici profili di “perfetti sconosciuti” (e il riferimento al film non è casuale), che pagano la vitalità con la moneta del like, al prezzo di fake, di spam, di finti selfie e di foto profilo col vip del momento.
E se queste riflessioni partono, con toni pacati e seri, da due che il marketing sul web “lo hanno fatto” (nel senso quasi fondativo del termine) è decisamente una buona notizia.
People are media

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