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Michele Di Salvo
15 Apr

L'Europa e lo spettro del populismo

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  Politica, populismo, comunicazione politica, europa, Società, elezioni

L'Europa e lo spettro del populismo

Uno spettro si aggira per l'Europa. Anzi, ne travalica i confini e abbraccia l'Occidente.
Questo spettro – oltre un secolo e mezzo dopo Karl Marx – si chiama populismo.
Le ragioni sono molteplici, spesso tipicamente locali e geolocalizzate, ma hanno aspetti e caratteristiche comuni. E radici molto profonde.

Il populismo innanzitutto non è una patologia dei sistemi occidentali, nè un fenomeno estemporaneo destinato a scomparire in tempi brevi.

Il populismo che attraversa l'Occidente non è un movimento unico, né una sintassi della comunicazione politica, quanto piuttosto uno strumento di aggregazione del consenso per usare il voto popolare per una trasformazione radicale delle democrazie che conosciamo.

Se guardiamo i processi in atto nel complesso delle democrazie occidentali possiamo vedere con chiarezza molte caratteristiche comuni.
La prima è che sono processi che appaiono come "movimenti di protesta recenti" ma che in realtà hanno origine almeno vent'anni fa.

La seconda è che sono tutti movimenti che si autodefiniscono post-ideologici e contro i partiti tradizionali.
La terza è che quasi ovunque questi movimenti nascono da lotte contro istituzioni sovranazionali (in USA contro il governo federale, in Europa contro la Commissione e il Parlamento europei) in generale contro le politiche economiche e fiscali.
La quarta è che ovunque la linfa vitale di questi movimenti proviene da quelle classi sociali normalmente rappresentate dalla "sinistra", e che sono quelle che maggiormente hanno pagato le crisi che si sono susseguite negli ultimi venticinque anni.

La quinta caratteristica comune è che, quasi ovunque, questo movimento di sostanziale protesta si connota di sentimenti "di chiusura", in ogni paese con le sue declinazioni specifiche: negli Stati Uniti contro l'immigrazione messicana e la delocalizzazione delle imprese, in Europa contro l'est, la Cina e contro i vari fenomeni di immigrazione (senza alcuna distinzione tra migranti economici, di guerra, profughi richiedenti asilo).

Questa quinta caratteristica ne porta con sè un'altra: il rafforzamento delle posizioni tipiche della "destra radicale", anche qui con varie e spesso nuove forme di declinazione.

Si va da Albadorata in Grecia, con posizioni dichiaratamente neofasciste, ai principali partiti delle neo-democrazie dell'est, che indistintamente assimilano posizioni anche filonaziste. In mezzo le posizioni francesi e italiane rappresentate dal Fronte Nazionale della Le Pen a dalla Lega di Salvini, che incarnano alla perfezione tutti e sei gli elementi di cui abbiamo parlato.

Per finire agli Stati Uniti, dove l'elezione di Trump è stata determinata elettoralmente dal calo dei votanti, disillusi dalla politica, con venti milioni di elettori in meno rispetto a quattro anni fa, e dallo spostamento sul tycoon americano di gran parte della classe media, che seppure non è in una condizione di povertà reale, ha visto una forte riduzione del proprio benessere e del proprio potere di acquisto e che percepisce il proprio futuro come precario e instabile.

Nel mezzo di tutto questo esistono alcune posizioni che potremmo considerare "atipiche", ma che a ben vedere rientrano nel quadro generale che abbiamo descritto.

Abbiamo l'UKIP inglese, artefice di quella che potremmo definire la prima "vittoria sul campo" di questo movimento globale, ovvero l'uscita dall'Unione Europea della Gran Bretagna. Un referendum nato da uno spot populista di Farage (secondo il quale uscendo dall'Unione si sarebbe tornati "ai fasti di un tempo") e da una risposta ancor più populista e distante dalla real-politik di Cameroon, che per ragioni di personale propaganda elettorale ha "promesso" il referendum.

In Spagna, per effetto sia del ruolo della monarchia (che non è stata esente dall'essere toccata dalle inchieste sulla corruzione), sia dei partiti indipenentisti (secondo varie declinazioni) sia anche per l'unica dittatura di destra di ispirazione fascista non terminata con la fine della seconda guerra mondiale, il risultato è stato unico nel suo genere: da un lato lo stallo politico dei partiti tradizionali, dall'altro la nascita di ben due partiti distintamente dichiaratamente populisti, ovvero Ciudadanos e Podemos, che da destra e da sinistra si contendono la leadership nazional-popolare.

Infine la Grecia, dove i partiti storici sono stati letteralmente spazzati via per cedere il passo a un sostanziale monocolore di Syriza, il partito di "sinistra radicale" del premier Tsipras, cresciuto enormemente come risposta alla crescita (ed al rischio) di Albadorata.

A questi casi si aggiunge l'Italia con il caso del Movimento 5 Stelle, fondato dal comico Beppe Grillo. E questo caso è emblematico di molti dei paradigmi che ho prima descritto.

Il momento di impulso maggiore il M5S lo ha avuto con le manifestazioni di piazza denominate "Vday", ovvero momenti in cui, da un palco, venivano pubblicamente messi alla berlina e processati e ridicolizzati i politici più noti. Le posizioni politiche del movimento sono le più generiche possibili, capaci di "aggregare" letteralmente chiunque. Si va dalle battaglie ecologiste e ambientaliste, sino a promesse elettorali dichiaratamente qualunquiste come "reddito per tutti" e abolizione dell'agenzia per la riscossione dei tributi. Il movimento ha una base elettorale per lo più proveniente dai delusi dei partiti storicamente di sinistra, ed anche socialmente ed economicamente si alimenta dalle fasce di popolazione tipicamente rappresentate dalla sinistra tradizionale. In un connubio che ha eguali solo con le origini del fascismo (va ricordato che Mussolini nacque e si formò nel partito socialista, socialista era la retorica e socialista-sindacale il programma originario del fascismo) lo zoccolo duro e maggiormente attivo del M5S è dichiaratamente di destra.

Non è un caso che nel parlamento europeo i rappresentanti del M5S sono nello stesso gruppo parlamentare dei nazisti svedesi, dell'UKIP di Farage, e dei movimenti di destra dell'est europa. Fuori per ragioni di appartenenza storica (ma con molte occasioni di voto congiunto), dal grande gruppo dell'estrema destra che fa capo a Salvini-Le Pen, con i quali convergono su temi come l'uscita dall'euro e la lotta all'immigrazione.

Partire da queste caratteristiche comuni ci aiuta anche a rintracciare le origini di questo fenomeno.

Storicamente la fine della guerra fredda segna l'inizio di una società post-ideologica.

Le necessità di stare da una parte o da un'altra per ragioni geopoliche superiori viene meno e si aprono nuovi scenari e nuove sintassi della narrazione sociale.

Da un'altra prospettiva è la stessa società che cambia, con una velocità dettata dai progressi tecnologici, dalla rete, dalle telecomunicazioni.

Con la globalizzazione nascono anche nuovi modi di stare insieme.

E' l'Unione Europea, con la libera circolazione di merci e persone, a segnare il passo di un mondo definitivamente cambiato.

Al modello di Stato-Nazione con propri confini definiti si sostituisce la Federazione di Stati, con confini, leggi e organismi sovranazionali.

In questo processo che viaggia nella società a velocità esponenziali dettate dalla integrazione, dalle tecnologie, dalla caduta di barriere e dazi, e dalla libera circolazione delle idee, dei saperi e dell'informazione, i partiti politici tradizionali – e peggio ancora gli schemi ideologici – progressivamente vengono meno alla loro stessa ragion d'essere istituzionale: interpretare la società e rappresentarla istituzionalmente e negli organi legislativi.

La cifra di questa distanza è proprio nella lentezza e arretratezza della legislazione in materia di nuove tecnlogie, privacy, big data, reti, datacenter e socialnetwork.

La dicotomia destra-sinistra viene sempre meno nei linguaggi, in una comunicazione politica tesa sempre più ad inseguire l'elettorato altrui, senza tenere conto di dove davvero stava andando una società sempre meno rappresentata e sempre più impaurita da un mondo che stava cambiando.

I partiti di sinistra, che tradizionalmente avrebbero dovuto spiegare la realtà e tutelare i diritti delle classi minori, hanno inseguito la classe media, e si sono arroccati a difesa delle produzioni nazionali senza comprendere che la delocalizzazione era una semplice redistribuzione della produzione.

I partiti di destra, che tradizionalmente dovevano difendere il libero mercato, si sono trasformati in difensori del protezionismo e del nazionalismo, occupandosi della classe media solo con promesse elettorali in materia fiscale.

Il fallimento di entrambi sta nella classe intellettuale di riferimento, che, incapace di spiegare la direzione che stava prendendo il mondo, contribuiva ad alimentare partiti politici sempre più organo di rappresentanza di pezzi di potere e parti dello stato.

In altre parole, incapaci di vendersi sul nuovo mercato, pretendevano di tornare a quello vecchio.

Entrambi – conservatori e riformisti – autoreferenziali e difensori di rendite di posizione.

In questo scenario quello che viene meno è l'autorevolezza di chi viene a ricoprire cariche pubbliche: non più una elite capace di rappresentare al meglio la società, ma "chiunque può fare qualsiasi cosa", soprattutto quando – travolti dalle inchieste sulla corruzione degli anni novanta in quasi tutta Europa – i politici eletti mostrano la parte peggiore della politica.

La questione da porci è seria e profonda e riguarda il "dove stanno andando le democrazie occidentali". Ovvero qual è la direzione finale di questo movimento di trasformazione della democrazia stessa, per come la conosciamo.

Come nella seconda della metà dell'ottocento gli imperi non erano un sistema adeguato ai tempi, e come le monarchie non lo sono state nella prima metà del novecento, le attuali forme di democrazia non sono adeguate a governare un mondo globalizzato e interconnesso.
Le moderne forme di comunicazione e la nuova velocità che hanno assunto i media, mal si prestano a forme di governo parlamentare tipiche del secolo scorso.

È probabile che la direzione che prenderanno le forme di Stato e di Governo saranno sempre più simili a quella americana, con sistemi bipolari chiusi, con partiti legati ai cicli elettorali, e sempre più spesso scalabili.

Si andrà verso un mondo in cui si perderanno gran parte delle tipicità politiche figlie della storia dei singoli stati nazionali, e verso un modello in cui i governi, eletti tutti pressoché allo stesso modo, con sistemi se non uguali almeno simili, avranno poteri decisionali maggiori, ed i cui rappresentanti parleranno da pari e omologhi tra loro sempre più spesso in strutture e istituzioni sovranazionali.

In qualche modo stiamo andando verso la globalizzazione della politica, dei sistemi di governo e di rappresentanza. Che piaccia o meno certamente più idonea a governare paesi partecipi di un mondo globalizzato, ma anche a rappresentare forti interessi contrapposti, dichiarati e schierati alla luce del sole, e protagonisti della vita politica e non più solo finanziatori e condizionanti le scelte economiche.

In questo processo, certamente più lento perché non frutto di una guerra mondiale, i movimenti populisti hanno un ruolo importante nella destrutturazione del vecchio sistema. Al contempo sono destinati, per ragioni fisiologiche, a non essere i protagonisti di ciò che verrà.

O si recicleranno in questa o quella parte, riconvertendosi a vere e proprie strutture partito, o saranno "un pezzo transitorio" di questa destrutturazione.

Lasceranno però tracce profonde nella politica e nella comunicazione, che non potrà non tener conto di linguaggi, tempi e sintassi di questa nuova aggregazione del consenso, fatta di web, viralità, slogan, capaci quanto meno di "scalare" le strutture della politica.

[in versione inglese su VocalEurope]

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