Trump e la strategia della guerra
Uno degli assunti della strategia politico-elettorale è quella sorta di regola non scritta per cui "non si cambiano i leader durante una guerra".
Lezione non copresa da George Bush (padre) che aprì e chiuse la prima guerra del golfo durante il suo mandato, asfaltando una prateria elettorale per Bill Clinton. In famiglia ha rimediato invece benissimo lo staff di George W. Bush – uno dei presidenti dalla politica più vuota e inconsistente della storia americana, in ogni senso intesa – che ha retto per otto anni sulla spinta di essere "comandante in capo" in tempo di "guerra mondiale a terrorismo".
Contarono poco o nulla le prove inventate dalla Cia presentate in pompa magna all'ONU. Contarono anche meno le inchieste sui rapporti tra la famiglia Bush, grandi multinazionali americane e la famiglia Bin Laden, e tutti dubbi e le anomalie sugli attacchi alle torri gemelle. Irrilevanti sul piano della comunicazione politica i film di Michael Moore e le posizioni delgli intellettuali americani. Così come non contava che in sette anni di guerra non solo non si era concretizzata la teoria della "guerra lampo" in salsa Usa, nè la "grande alleanza mondiale", nè gli scarsissimi risultati ottenuti.
Un popolo in guerra rielegge il suo capo, che non a caso ripeteva lo slogan "finiamo il lavoro".
Una lezione che pare voler seguire pedissequamente lo staff dell'ammonistrazione Trump.
In assenza di una strategia, presentatosi alla Casa Bianca come una sorta di gitanti del fine settimana, eterogenei, improvvisati, e senza alcun progetto complessivo chiaro, presi da due sole esigenze interne: abbassare le tasse e ridurre la spesa.
Due vie da pochi sottolineate come tecnicamente e socialmente razziste. Di un razzismo e classismo trasversale: colpire chi ha necessità di un sussidio, di un'assistenza pubblica, di servizi federali di riferimento (in maggioranza immigrati di prima e seconda generazione), a vantaggio dei ricchi (in maggiornaza bianca).
Ma in questa strategia c'è qualcosa di più profondo e radicato nella società americana.
Una società in cui mediamente almeno il 30% del reddito proviene dalla finanza (i fondi per i figli all'università, i fondi pensione, i fondi integrativi, le operazioni sui mutui...).
La recente crisi dei sub-prime ha messo in crisi questo sistema, mostrandone la fragilità. Generando paura. Soprattutto nella classe media. E quella risposta generalista e populista legata alla lotta alla delocalizzaione piuttosto che ai dazi doganali, è piaciuta a un popolo che ama e considera irrinunciabile il proprio ruolo di "impero" senza volerne più sostenere i costi.
È con questa chiave che Trump e i suoi arrivano al potere.
Ma aprire la porta e fare qualcosa di nuovo, diverso e utile richiede ben altre capacità.
Travolti dagli scandali, dalle inchieste – che vanno dallo spergiuro, all'appropriazione di fondi, alla distrazione di fondi, alla falsa testimonianza, all'intralcio alla giustizia (per chi non ha memoria molto più di quanto fece cadere Nixon!) - e soprattutto dallo zero assoluto di risultati ottenuti (tutti gli indicatori economici e sociali sono peggiorati dall'insediamento), non resta ai consiglieri di Trump che rifugiarsi nella tradizionale e antica tecnica della "guerra globale" e giusta.
E se ripercorriamo le varie tappe possiamo vedere chiaramente come di fatto ci stiano provando in tutti i modi e in tutte le direzioni.
Prima la Corea del Nord, poi la Russia, poi lo spostamento dell'ambasciata in Israele, poi di nuovo la Corea, poi la guerra commerciale con il Messico, poi minacciata all'Europa, poi con la Cina, poi di nuovo la Russia, e stavolta indirettamente sempre con la Russia in Siria. Tutto in meno di due anni.
Trump è a caccia di una guerra. La sua guerra. Qualsiasi forma abbia e in qualsiasi location mondiale sia. Basta che sia una guerra. Una guerra sua. Di cui essere comandante in capo e cancellare dal dibattito pubblico i rimpasti di staff e di governo, i falimenti di politica economica e di legislazione interna, le inchieste, le indagini, le dimissioni a catena, le scelte istituzionali.
Datemi una guerra, sembra dire da un anno a questa parte, qualsiasi, ovunque sia.
Non è quindi un caso se sullo scenario internazionale si sia ritrovato, in Siria, due alleati di eccezione.
Il primo è l'Inghilterra, dove una Teresa May in chiara difficoltà, affiancata dal peggiore ministro degli esteri che la storia diplomatica britannica ricordi, si gioca la carta dell'alleato fedele, della leadr risoluta e risolutrice, e dello spolvero della potenga inglese (poco conta che era, che sia o che fu).
Insensistente – e non a caso – il suo ministro degli esteri, balzato agli onori nazionali come sindaco della Londra Olimpica che ad un cronista che gli chiedeva come avesse intenzione di frontegiare il problema dell'alcol durante i giochi risposte "il consumo elevato di alcol è una piaga, provvederemo a farne ampie scorte prima". Quel Boris Johnoson che, in cerca di una visibilità e un futuro politico pur di esistere ha passato il suo tempo a dire tutto il contrario di Cameroon, sino alla Brexit.
Brexit di cui – da promotore a ministro – è più che responsabile.
In primo luogo delle promesse non mantenute (prima tra tutte quella di 360milioni di sternile in più a settimana per la sanità pubblica) e poi delle conseguenze: -15% del valore della sterlina, -8% dell'occupazione, oltre a tutte le aziende in procinto di lasciare e del debito enorme che la Gran Bretagna dovrà saldare all'Unione.
Anche per Johnson e la May quindi, spostare l'attenzione dell'opinione pubblica dal fronte interno a quello internazionale, come alleati degli americani e polizziotti del mondo, mostrando anche qualcosa in più di qualche muscolo non è stata una carta scartabile, piuttosto un jolly arrivato al momento opportuno.
Infine la Francia, guidata da un Macron "fuori dai partiti tradizionali" che ancora deve accreditarsi sulla scena internazionale come guida capace di ereditare la grandeur francese.
Da persona intelligente ha giocato su tre fronti: da un lato alleato forte e determinante (anche senza schierare un solo uomo o lanciare una sola bomba), dall'altro, di sfidante della Merkel alla guida europea (con una Germania passata dal no al si al bombardamento in meno di 12 ore), ed infine come diplomatico di statura globale.
È stato lui infatti a evitare lo scontro diretto avvisando il Cremlino dell'attacco e degli obiettivi, per evitare venissero colpiti anche solo accidentalmente soldati russi innescando l'escalation.
Ecco, quando pensiamo alla Siria, possiamo farci distrarre dalla narrazione della comunicazione politica, che ci vuole pro o contro, o possiamo analizzare in profondità la scelta dei protagonisti.
E forse comprenderemo che in questo scenario le armi chimiche sono poco più che lo specchietto per le allodole. O per gli elettori.
[il testo in inglese è disponibile su The Vocal Europe]