Da Barilla a Enel come cambia la comunicazione virale
La pubblicità tradizionale ha almeno due caratteristiche essenziali, la prima essere costituita da un messaggio immediatamente quantificabile, nel senso che si sa prima quanti lettori ha un giornale, quanto pubblico una trasmissione televisiva, e come è targettizzato quel pubblico; in più quel messaggio è sostanzialmente “passivo”, nel senso che ha un media attraverso cui arriva al consumatore, senza alcun bisogno di interazione.
Con il web, la pubblicità del terzo millennio ha dapprima scoperto un sistema di pubblicità molto più economico, in quanto indipendentemente dal pubblico che “visualizza” il messaggio, viene remunerato generalmente solo “il messaggio al pubblico attivamente interessato” ovvero, indipendentemente dall’audience generaòe del sito, solo quel pubblico che compie un’azione (click, registrazione, acquisto e così via).
Con l’avvento dei social network, e mano a mano che si sono sviluppati sistemi di viralità e di condivisione, sono state sviluppate vere e e proprie strategie di campagna basate sulla interazione degli utenti, in maniera sempre più sottile e sofisticata, e sfruttando sempre più l’inconsapevolezza degli utenti. Tra questi possiamo ricondurre ad esempio le “gaming strategies”: creo un gioco gratuito, lo rendo virale richiedendo tanti amici “collaboratori” per aumentare il livello e crescere nel gioco, creo una community che per un tempo minimo quotidianamente si collega al gioco, e target tizzo la pubblcità su quella community, in cui gli utenti passivamente trascorrono del tempo vedendo pubblicità. L’esempio di maggior successo è stato Zynga, la società americana ideatrice di Farmville, Cityville, Petsociety e un’infinità di altri giochi a soggetto, che ha macinato (creando giochi tecnicamente gratuiti per gli utenti) sino a 2miliardi di dollari di ricavi annuali, ed ha in portafoglio community di utenti profilatissimi per circa 200milioni di utenti.
Sul modello dell’interazione sono attualmente concepite la maggioranza delle campagne strutturate per il web, siano esse di comunicazione politica, sociale, e di brand, e non è detto che il modello sia sempre lineare. Gli utenti possono essere chiamati a partecipare ad esempio “mettendo mi piace” su una pagina social e ricevendo sconti in base al numero di amici presentati, o riservando particolari offerte solo ai fan di un determinato social network e accrescendo tali benefici in base al coinvolgimento della propria rete. Sin qui sono i normali adeguamenti alle nuove tecnologie social di sistemi classici come il network marketing.
L’ultima evoluzione delle campagne social sul web era la “campagna tematica attiva positiva”. Un esempio recente è la campagna di Enel #Guerrieri, ovvero invitare gli utenti a partecipare raccontando la propria storia, e intervenendo su una parola comune. Il vantaggio di questo tipo di campagna è quello di mirare ad ottenere un grande risalto e una vasta attenzione sul brand attraverso una “campagna a contenuto positivo”: Enel in sostanza richiede che le persone raccontino la propria storia “positiva” di vita comune, offrendone visibilità e condivisione. Lo “svantaggio” di queste campagne è che richiedono comunque un investimento iniziale pubblicitario tradizionale, e normalmente tengono relativamente conto del fatto che utenti “arrabbiati” con quel marchio possano “entrare” nella campagna” con messaggi negativi, o peggio che lo possano fare dei competitor.
L’ultima frontiera sembra essere tuttavia la “campagna tematica attiva negativa”. La chiave della campagna in realtà è la cd. “exit strategy” ovvero il momento in cui il brand “risponde e risolve il problema”. Andiamo però con ordine. Viene creato un messaggio negativo, o comunque socialmente ritenuto negativo; a quel punto si dà risalto a quel messaggio, creando una sorta di campagna di indignazione. Il risultato immediato è che comunque si parla di quel brand, a lungo, e in maniera diffusa. Salvo poi al momento opportuno replicare e precisare, ottenendo sui media tradizionali uno spazio “a costo zero”, diffuso e omogeneo.
Un esempio di questo effetto è quello che sta succedendo in questi giorni sul marchio Barilla, storicamente posizionato su un messaggio di “casa”, di tradizione, di famiglia, sia nelle scelte di prodotti sia nella conduzione aziendale. In un momento di calo dei consumi (soprattutto di fascia medio alta nel circuito della grande distribuzione) e di grande attenzione sociale al tema della famiglia e dell’omofobia (di qualche giorno fa il ddl in materia con le relative polemiche) è bastata una semplice dichiarazione per scatenare un’attenzione mai vista su questo marchio.
A ben guardare in realtà “l’attacco” alla Barilla è tutto incentrato sul rilanciare l’idea di “Barilla come marchio della famiglia” – specie se tradizionalmente intesa – che poi è esattamente quello che Barilla ha cercato di fare spendendo miliardi in pubblicità. Per cui anche il messaggio “negativo” in termini pubblicitari non fa che rilanciare lo stesso concetto che coerentemente l’azienda ha cercato di “vendere” al suo consumatore. Barilla ha ottenuto che – a costo zero, ma con estrema visibilità – tutti i media tradizionali si occupassero della vicenda. Per altro in un momento in cui le aziende “made-in-italy” vivono un momento di forte acquisibilità internazionale rilanciando anche il tema per cui “questo boicottaggio penalizza l’italianità”. E non è un caso che sia stato infatti casualmente lanciato dopo pochi giorni, in risposta al #boicottabarilla l’hashtag #iostoconbarilla.
Il dato quantitativo è “ma chi mai ha parlato tanto e si è schierato tanto su un marchio di pasta”?
Come ha evidenziato Fabio Lalli, fondatore di “indigeni digitali” “del caso Barilla vorrei soffermarmi all'atteggiamento dei competitor e alla loro reazione immediata in rete: 1) pubblicazione di messaggi che sfruttano la situazione (e l'hype della rete) per usare immagini che, in assenza di questo messaggio di Barilla, probabilmente non avrebbero mai utilizzato per primi. Paura di sbagliare e rompere una barriera culturale? 2) utilizzano un errore del concorrente per farsi fighi, invece di migliorare il prodotto e vincere sulla qualità del prodotto. Direi che questa vicenda è emblematica della incapacità di prendere una posizione su un tema così delicato (se non come reazione) e di una scarsa qualità di prodotto tanto da dover cavalcare un errore invece che mostrare un valore.”
Una strategia di “campagna tematica attiva negativa” va ben ponderata, e deve preventivare le perdite con i guadagni: se però l’azienda rischia di perdere 2 punti di fatturato, ma riceve una campagna che ne sarebbe costata 3 e alla fine di acquisire altri 3 punti di fatturato, il calcolo è presto fatto. Va inoltre considerata la tempistica, che va collegata ai dibattiti sociali e politici contemporanei e soprattutto va inserita nel momento economico e di mercato più favorevole, ovvero quando si registra la maggiore flessione. Da ultimo, si deve sempre considerare che alcuni temi sui quali ci dichiariamo socialmente sensibili – come l’omofobia – difficilmente si traducono in sostanziali variazioni dei comportamenti commerciali di massa, per quanto facciano enorme clamore.
Il modello delle campagne attive negative, che si fonda essenzialmente sul passaparola delle persone per attivarsi “contro” una certa dichiarazione, è di uso abbastanza diffuso nelle campagne elettorali politiche americane, dove addirittura ci sono candidati che fanno diffondere video insinuanti per poterli smentire fermamente e ottenere la massima visibilità; anche in questi casi ciò avviene normalmente nei momenti chiave con sondaggi molto bassi.
Il nodo centrale tuttavia che dobbiamo affrontare come tecnici della comunicazione è quale sia “il punto limite” di ciò che sia corretto immaginare di fare per una campagna, e anche quale sia il limite da darsi nel coinvolgere il sano attivismo delle persone, che in certi contesti rischia di essere basso strumento al servizio del marketing. Stessa riflessione ci riguarda come consumatori, perché in una comunicazione sempre più strutturata come “sociale” e partecipativa, la capacità di discriminare è essenziale per evitare che un certo tipo di impegno e sensibilità diventi parte inconsapevole di un marketing (economico e politico) sempre più aggressivo. Tutte questioni e riflessioni che non possiamo delegare ad una legge.
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