La demagogia dell'abolizione del finanziamento pubblico
La premessa di tutto questa gran parlare del finanziamento pubblico è il moto popolare di sdegno verso le degenerazioni del sistema, attraverso meccanismi dalle maglie troppo larghe e dalle regole di controllo ancora troppo blande.
Anche nel 1992, nel contesto degli scandali di tangentopoli, la parola d’ordine della pancia della piazza fu per la richiesta a gran voce dell’abolizione di questo strumento.
Oggi come allora, partiti scandalizzati da quanto avveniva, come se non li riguardasse, seguirono le grida popolari per non essere travolti: la lega nord, forza italia, il pds.
E dopo vent’anni – con i dovuti distinguo e le debite distinzioni – scoppiano i casi Lusi, Belsito, Fiorito; e non ne è esente anche l’Idv di Di Pietro, nel ’92 il pubblico ministero più in vista del pool di Milano noto giornalisticamente come “mani pulite”.
Non ne è esente il Movimento 5 stelle, che della trasparenza fa la sua bandiera, ma che nei fatti è un “sotto la bandiera niente”,dal momento che non esiste una rendicontazione che rispetti la legge 96/2012 e non c’è un tesoriere, e a ben vedere nemmeno un conto corrente preciso.
E allora qualcosa che non funziona c’è, e prescinde dalla storia, e riguarda ineluttabilmente la qualità del nostro sistema politico, delle persone che scegliamo, e in qualche modo non può che riguardare in ultima analisi noi stessi, e cosa chiediamo alla politica.
Il tema non è nemmeno quello del “senza il contributo pubblico solo i ricchi faranno politica”.
Per il semplice fatto che è già così, ed è inutile girarci attorno, per il semplice fatto che i rimborsi elettorali vanno ai partiti, ovvero alle loro strutture, e non certo al candidato (e verrebbe da dire che è anche normale vista la legge elettorale).
In sostanza quello attuale è un sistema che si autoalimenta ed alimenta le strutture, e non certo finanzia l’attività politica.
Non oso immaginare cosa accadrà se al denaro verranno sostituiti servizi e strutture; l’unico vantaggio sarà l’ulteriore deresponsabilizzazione del singolo partito e tesoriere nella scelta dei locali da fittare, delle utenze da rendicontare, perché tutto finirà nel grande calderone delle spese della pubblica amministrazione, e non si potrà più distinguere e discernere lo spreco dal risparmio, e la spesa superflua da quella necessaria.
Allora, vista questa lunga premessa, qualcuno dirà, ma perché difendi il finanziamento pubblico?
Non lo difendo, o meglio non lo difendo nelle forme e nei modi in cui è ora ed è stato prima.
E nondimeno non sono mai persuaso dalle misure prese per accontentare l’umore delle folle, e senza una visione complessiva del problema.
Cerchiamo pertanto di unire almeno tre aspetti, prima di toccare una voce sola.
C’è l’aspetto del controllo sulla trasparenza, sia sulle spese che sulle entrate, e non solo dei partiti, ma anche delle associazioni e delle fondazioni che vengono create per dare una struttura (anche finanziaria) a correnti e componenti.
Toccare la forma la struttura e il finanziamento di un “partito di tutti gli iscritti” significa dare solo maggiore forza a piccoli o grandi potentati “di singole componenti di iscritti” – e la questione è trasversale, e tutti lo sanno.
C’è l’aspetto del finanziamento privato, che va normato in maniera precisa, trasparente, chiara, identificando sempre chi finanzia con quanto chi e cosa, e ciò sia che avvenga in forma diretta, sia in forma “mediata” da associazioni, fondazioni, forniture in beni o servizi.
Il terzo aspetto riguarda i conflitti di interessi, che toccano trasversalmente tutti. Si va dalla compatibilità tra aziende che svolgono attività verso partiti, candidati, liste, campagne, e la partecipazione delle stesse a gare per le relative amministrazioni o enti pubblici.
Se ad esempio un’azienda fa un sito internet per un presidente della regione, può poi partecipare ad una gara per servizi del genere in enti pubblici di quella regione?
Può un costruttore essere cliente di chi cura la comunicazione di un assessore ai lavori pubblici o di un ministro?
Può un immobiliarista “offrire” a prezzi simbolici un immobile per un comitato elettorale di un sindaco, presidente di provincia o regione, e poi partecipare a gare in quel territorio?
Sono solo esempi, ma sarebbe opportuna qualche risposta chiara prima che si faccia una legge, e non discuterne dopo, semmai con la risposta formale del “la legge non lo vieta”.
Ecco, se non tocchiamo questi tre punti, in modo chiaro e con la massima trasparenza, tutto il resto del ragionamento ragionieristico funziona poco, se non in modo elettoralistico e propagandistico.
Infine c’è il tema del modello di partito e di struttura da dare nel complesso del quadro istituzionale di un paese, della sua forma di stato e di governo.
Se i partiti sono lo strumento attraverso cui si forma il corpo legislativo e quello esecutivo, beh si pone il problema che la loro forma, la loro trasparenza, la loro democrazia interna, la loro proprietà, la disciplina del loro funzionamento, non può essere lasciata del tutto alla discrezione di qualcuno.
Sin qui sul tema dell’attualità.
Aggiungendo semmai che chi sbandiera il vessillo dell’abolizione di qualche contributo, spesso lo fa non per tutto, ma per ciò cui non ha diritto.
Ad esempio, e non per rivangare, il Movimento 5 stelle, delle spese di comunicazione e funzionamento dei gruppi parlamentari, non solo non ha rinunciato a nulla, ma li ha ceduti ad una società privata (il che significa che sarà impossibile un controllo diretto di quei fondi).
Nondimeno rinuncia ai rimborsi elettorali – peccato che non ne ha diritto perché non rispetta la legge 96/2012.
E certo fa presto a presentare un disegno di legge in tal senso un partito come il Pdl, il cui presidente (a prescindere dalle condanne per evasione fiscale) ha un reddito dichiarato di poco inferiore ai 400milioni di euro, ovvero 10volte quanto occorre al suo partito per funzionare!
E certo presentato nelle forme di abolizione del fondo e fornitura delle strutture, sposta poco o nulla ai partiti strutturati o storici, che paradossalmente potrebbero anche guadagnarci e spendere di più, e non di meno attraverso questo sistema, e di queste spese non risponderne nemmeno formalmente.
E allora sarebbe bello che per una volta le persone trattenessero il mal di pancia, se non vogliono essere prese in giro per l’ennesima volta, e chiedessero con forza una riforma vera e complessiva.
Perché no, che parli anche del lobbismo, che lo regoli, come in tutto il mondo senza fingere che non esista, ma anche senza criminalizzarlo a priori come una cosa sporca.
Per cambiare la qualità di una classe dirigente non servono leggi, ma serve modificare l’approccio qualitativo delle persone che eleggono quei politici, e i criteri personali con cui facciamo le nostre scelte.
Dare ascolto alla pancia e all’istinto può servire, ma molte volte è il grimaldello per farci prendere ancora una volta per i fondelli, dal migliore imbonitore e demagogo di turno.
p.s.
Io mi sono preso la briga, prima di scrivere questo post, di leggere tutte le 9 proposte depositate su questa materia, da parte di tutti i partiti; me ne risultano 3 del M5S, 3 Pd e 2 Pdl e 1 di Sel.
Sono pronto a dimostrare carte alla mano che ciascuna ha almeno 3 scappatoie che la rendono inutile ed eludibile, come e quando volete… quindi per favore, esentatevi da commenti di parte…
p.p.s.
Visto che il tema del finanziamento pubblico riguarda anche la carta stampata, e vista l’ultima querelle sul tormentone del Fatto Quotidiano, sul fatto che sarebbe l’unico libero perchè non prenderebbe fondi pubblici…
Premesso che è proprio chi prende solo fondi pubblicitari ad essere più condizionato, in linea di principio, mi permetto di evidenziare che esistono varie forme di contributo pubblico: la defiscalizzazione dei contributi per le cooperative, abbattimenti tariffari… ma soprattutto, visto che il nodo sarebbe la legge 250, mi preme ricordare che il Fatto Quotidiano non accede a quei fondi non perché non li chiede, ma perché non ha titolo giuridico a chiederli.
Sono certo che non li chiederà nemmeno nel 2014, quando avrà maturato i titoli per farlo, e quel girono ne riparleremo.
Ma sino ad allora, anche nel loro caso, ricordiamo che nella lingua italiana si “rinuncia” a qualcosa solo dopo avere anche “titolo” a riceverla.
Sul tema tuttavia rimando a qualcosa che ho scritto, in forma organica, in tempi non sospetti, oltre tredici mesi fa…
Per una vera riforma dell'editoria periodica