Il dovere di una scelta che unisce
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L’elezione del Presidente della Repubblica è uno di quei momenti in cui la Costituzione stessa impone il superamento delle divisioni. Ancor più se consideriamo che i quorum di elettori necessari erano fissati tenendo conto della legge elettorale parlamentare vigente in quegli anni, non certo di quella attuale, con i vari premi di maggioranza.
Lo scopo, lo spirito, l’essenza fondante di quel momento, nella scelta di una persona che incarnasse l’unità del paese, che andasse oltre ogni possibile e immaginabile legislatura, maggioranza o governo, imponevano di guardare oltre il risultato elettorale, i partiti, la frammentazione sociale della rappresentanza, e la singola legislatura, e richiedevano uno sforzo, una volta tanto, di saper andare oltre se stessi, e di ascoltare l’intera nazione anche attraverso i grandi elettori provenienti dal territorio. Anche logisticamente doveva essere un momento di grande incontro di tutto il paese, nella Camera che rappresenta tutti i cittadini, e di unità oltre ogni divisione, sia essa culturale, linguistica, politica, partitica.
Se non ci mettiamo d’accordo prima sulla definizione e non ricordiamo prima chi è e cosa rappresenta il Presidente della Repubblica non possiamo nemmeno cominciare a parlare di questa elezione.
Molti commentatori hanno evidenziato che questo momento politico del Paese è uno dei più lacerati e laceranti dalla fine della seconda guerra mondiale, tutti concordi nel definire lo stato di ingovernabilità come molto grave, e nel richiamare tutti a una maggiore interlocuzione e collaborazione e dialogo per un interesse “superiore”.
In questo momento questa vicenda viene vista e vissuta come un momento di accordo tra singoli partiti politici in funzione di un governo, di questa o quella soluzione politica tra partiti, di misura della possibilità di collaborazione parlamentare.
Tutte cose nobili e importanti che non hanno nulla a che vedere però con l’elezione del Presidente della Repubblica, e men che meno con due dati elettorali che tutti fanno propri nelle dichiarazioni ma che nessuno trova una strada concreta per trasformare in azione.
Il primo dato è lo scollamento tra la politica dei partiti, i partiti stessi, gli eletti, e la società, intesa come le persone, tutte quante e tutte insieme, che fanno questo Paese, e che dovranno domani continuare a subire, gestire, convivere con le decisioni, non certo leggere, che qualsiasi governo dovrà prendere, e che non possono certamente essere portate avanti senza la collaborazione popolare.
Il secondo dato è la spinta al rinnovamento, ad elevare gli standard della qualità della classe dirigente, della rappresentanza politica, delle personalità che devono rappresentare le istituzioni, ed anche in questo caso non è una semplice “propensione propositiva” ma un bisogno fisiologico ed unificante di una società lacerata e priva di speranza.
In un momento in cui tutti si affollano agli stessi microfoni per ripetere pedissequamente questi concetti, ci si sarebbe aspettati che almeno qualcuno desse un nome ed un volto che li concretizzassero. E non era né semplice né facile, ma anche questa volta in questo Paese si è tirata fuori dal cilindro della nostra storia una rosa di nomi degnissima, di persone che abbiamo saputo ri-conoscere come unificanti, oneste serie. E non era né semplice né scontato.
I nomi di Prodi, Bonino, Amato, Marini sono tutti degnissimi, e ciascuno valido “per altri tempi” e in altri momenti; quelli di Cassese, Zagrebelsky, figuriamoci chi può “dirne male”, ma non sono la rappresentanza di quella società che “vuole riconoscersi” in quel ruolo.
Così come le proposte di Fo, Gabanelli, Strada, solo un idiota potrebbe non riconoscere a questi nomi eccellenza di partecipazione sociale e culturale nella visione più ampia ed alta che, in settori così diversi, la nostra società, spesso suo malgrado, e spesso nonostante se stessa, è riuscita a esprimere.
Tra tante proposte e tanti nomi, che sino ad un mese fa avremo pagato per averne anche solo uno, ne è emerso uno, Stefano Rodotà, che oltre alle caratteristiche che stiamo riconoscendo a tutte le personalità citate, ha anche alcune caratteristiche peculiari.
E’ una persona preparata, ha una conoscenza di questo Paese e della società italiana, ha una precisa concezione del ruolo istituzionale della Presidenza della Repubblica, e in più è considerato indipendente, non di parte, e soprattutto il popolo italiano (ovvero quello che il Presidente deve unire e rappresentare) lo considera degno, onesto, e un garante istituzionale.
Non esiste un solo elettore che non lo voterebbe e credo nessun cittadino che non si sentirebbe rappresentato, e che da lui non accetterebbe la spiegazione per accettare dei sacrifici.
E oltre tutto questo, sarebbe un nome includente, che non delineerebbe maggioranze parlamentari, sarebbe trasversale, e in un momento come questo sarebbe stato eletto al primo turno, facendo convergere (anche senza unire) tutte le forze politiche parlamentari, e facendo convergere (miracolosamente di questi tempi) sulla medesima scelta anche il popolo italiano.
John Barrimore scrisse che l’uomo diventa vecchio quando i rimpianti prendono il posto dei sogni.
Qui si tratta di una intera classe politica che si candida a diventare vecchia, senza più alcun distinguo, in un solo momento e per un solo rimpianto, quello di non aver fatto la scelta statista più giusta, equa e corretta e unificante.
Abbiamo avuto molte elezioni complicate, discusse, con divisioni anche molto accese e forti.
Fa parte della vita politica, della dinamica parlamentare e della vita della democrazia.
Credo che però mai si è assistiti ad una elezione presidenziale in cui in discussione vi fossero alternative che dividono – se possibile ancora di più – il paese e la società.
Mai nessuna scelta alternativa è stata così il segno, il simbolo e la misura della divisione nazionale ed al contempo della distanza tra i cittadini e le istituzioni, tra popolo e partiti.
Più che un richiamo a volare alto, in questa occasione si tratta di evitare di dare lo schiaffo definitivo alla decenza e al decoro delle istituzioni.
Il Presidente della Repubblica non è merce di scambio, non è un pezzo delle cose da votare, né un momento nell’agenda politica, ma un simbolo che appartiene a tutti e un’istituzione al di là delle appartenenze che deve far convergere se non tutti la massima parte possibile dei partiti e delle forze sociali, proprio perché rappresenta l’unità imprescindibile della nazione e del suo popolo.
Ed oggi rischia per miopia di diventare la pietra tombale della politica e il momento in cui le chiavi della democrazia vengono consegnate al populismo e alla demagogia più facili.
E che nessuno domani cerchi attenuanti alle proprie responsabilità.