Il mercato delle armi made-in-Italy
Con tre mesi di ritardo, il governo ha trasmesso al Parlamento la relazione annuale sull’export di armamenti italiani. Dal documento emerge che nel 2012 il Governo ha autorizzato contratti di vendita per 2,7 miliardi di euro, al netto dei programmi intergovernativi di cooperazione industriale, ovvero tutte le operazioni di fornitura da e verso i “governi alleati”, quelli in abito Nato, e tutti quelli di fornitura parziale di armamenti per “co-produzione”.
Ai primi posti per valore contrattuale delle commesse quasi tutte aziende legate a Finmeccanica: su tutte Alenia Aermacchi (con un miliardo di export ‘puro’), seguita da Agusta Westland (490 milioni), Selex Galileo (189), Mbda (172), Oto Melara (142), Fincantieri (68), Avio (66), Rheinmetall Italia (63), Piaggio Aero (60), Whitehead Alenia (59), Simmel Difesa (54), Selex Sistemi Integrati (47). Parliamo di aerei, elicotteri, navi, blindati, artiglieria, bombe, missili, siluri, fucili, munizioni e armi antisommossa (i candelotti Cs prodotti dalla Simad, venduti in gran quantità dalle polizie di Brasile, Bangladesh, Romania e Spagna).
Secondo la legge 185 del 1990, che regola l’export militare italiano, le aziende italiane non possono fare affari con paesi in conflitto o in cui siano accertate gravi violazioni dei diritti umani o “la cui spesa miliare è eccessiva rispetto a quella sociale” (sic!)
E tuttavia nella lista dei paesi “importatori” c’è Israele (473 milioni di esportazioni autorizzate), seguito dagli Stati Uniti (419), dal regime algerino di Bouteflika (263), dal partito unico al potere in Turkmenistan (216) e emiri arabi (150). L’elenco prosegue con l’India (109 milioni), militarmente impegnata sia in Kashmir che contro la guerriglia naxalita; il Ciad (88), nazione poverissima con un esercito che arruola ancora bambini-soldato , la Turchia (43), in eterno conflitto con gli indipendentismi curdi; l’Arabia Saudita (39), monarchia dal discutibile rispetto dei diritti umani fondamentali; il Pakistan (24), in guerra aperta con i talebani locali; la Libia (20), dove continuano i combattimenti tra fazioni; la Thailandia (13), impegnata nel conflitto contro gli indipendentisti musulmani; l’Afghanistan (8), dove siamo direttamente impegnati. Tra i destinatari di esportazioni minori figurano altri Stati difficilmente compatibili con i criteri di legge, quali Libano, Kosovo, Cina, Russia, Vietnam, Zambia, Behrein, Oman, Colombia, Perù e Filippine (da decenni in guerra con guerriglieri islamici e comunisti, che da poco ha firmato con Fincantieri un contratto da 310 milioni per due navi da guerra).
L’81% dell’ammontare complessivo delle esportazioni è stato negoziato da tre istituti bancari: Bnp Paribas, con intermediazioni per quasi un miliardo di euro (il 34 per cento del totale), Deutsche Bank con 740 milioni (27 per cento) e Unicredit con 540 milioni (20 per cento) – quest’ultima qualche anno fa si era impegnata a cancellare completamente le sue attività nel settore. Seguono Barclays con 230 milioni (8 per cento), Bnl – gruppo Bnp Paribas – con ulteriori 108 milioni (4 per cento), Carispezia con 68 milioni (2,5 per cento).
Questi i dati, in estrema sintesi, del rapporto, che non scende nel dettaglio di una serie di contratti e dettagli sugli armamenti per “ragioni di difesa” e di segreto militare.
Ma ci sono cose più importanti che nessun rapporto dice, e per le quali invece sarebbe opportuno che qualcuno chiedesse informazioni al Copasir, o almeno che il Copasir chiedesse ai nostri Servizi – che diranno probabilmente anche in quella sede di “non poter dire”.
E sono le operazioni scomode che ci vedono ai primi posti nel mondo.
Le guerre non convenzionali, le guerriglie, il terrorismo, non viene combattuto da carri armati ed elicotteri né con radar e siluri.
Il 95% degli armamenti di eserciti irregolari, di eserciti fatti da bambini, delle varie guerriglie che “alimentano” il bisogno di missioni di interposizione e di “guerre vere”, sono costituiti da armamenti leggeri: fucili, pistole e soprattutto mitra, e qualche missile anticarro, mine e granate.
La maggior parte di questi armamenti non proviene da transazioni dirette.
Spesso accade che eserciti regolari centrafricani, per acquistare armamenti, paghino con “permute”.
Queste armi non sono tracciate né tracciabili, e compiono un viaggio molto breve territorialmente ma molto lungo “sulla carta”.
La premessa, su tutte, è che in genere le armi non vengono vendute con grandi commesse governative dirette, ma attraverso la fornitura a intermediari.
Sei dei dieci maggiori mercanti “privati” di armi hanno sedi a Lussemburgo e nel Principato di Monaco. E operano pressappoco così.
Il Governo A decide di acquistare 12 carri armati e un paio di aerei.
Divide l’ordine tra due mediatori, che regolarmente li acquistano e ne certificano la destinazione finale e ne pagano il prezzo – generalmente in dollari – al fornitore, che in questo modo ha la sua documentazione linda e pinta per le relazioni ministeriali e le relative autorizzazioni.
In realtà il Governo A paga la metà in denaro e il resto in forniture generalmente minerarie immediatamente negoziabili (legnami pregiati, pietre o metalli preziosi) e in parte “svuotando” parte dei magazzini: fucili, pistole, mitra, vecchie granate, camion, qualche vecchio blindato…
Questi “beni” passano alla società mediatrice che a sua volta li smercia generalmente non troppo distante, in paesi o regioni immediatamente confinanti, che pagano quelle forniture a caro prezzo, perché spesso gli acquirenti sono illegali o i governi sono sottoposti a embargo.
Il prezzo anche questa volta è “in forniture generalmente minerarie immediatamente negoziabili (pietre o metalli preziosi)”, e la relativa commercializzazione avviene “gonfiando” i primi titoli di credito, ovvero i beni simili ricevuti in pagamento dal Governo A.
Chiaramente attraverso questo sistema è anche difficile che una società produttrice “paghi” ufficialmente alcuna tangente, dal momento che la stessa viene fatta rientrare nella “differenza prezzo” o commissione da pagare all’intermediario – e di cui la società produttrice può tranquillamente dirsi all’oscuro.
Se consideriamo che mediamente su forniture sotto i 20milioni vengono pagate tangenti sino al 10% e per forniture superiori la forbice va dal 6 al 4%... è facile dedurre che sui nostri “ufficiali” 2,7 miliardi, siamo responsabili almeno di 200milioni di euro di corruzione internazionale.
Ovviamente il guadagno della società di mediazione è enorme, così come la “limitrofità” con i servizi di sicurezza di mezzo mondo, perché sarebbe inimmaginabile un “contrabbando” del genere senza che nessuno se ne accorga.
Questa limitrofità però non è solo fatta di corruzione, seppure un certo tornaconto spesso difficile da verificare ci sta sempre, ma è soprattutto una contiguità dettata da esigenze ed opportunità politiche.
Questo sistema infatti garantisce senza che nessun governo in alcun modo compaia o figuri direttamente in nessuna fornitura “desiderata” a qualsivoglia “movimento clandestino”, sia appoggiato per ragioni politiche, sia per ragioni destabilizzanti di opportunità geopolitica.
Con buona pace della coscienza di tutti, i paesi che appoggiano questo sistema, anche semplicemente non contrastandolo come potrebbero, sono Italia, Francia, Germania, e per la parte finanziaria Inghilterra, Francia, Svizzera, Lussemburgo, Germania.
Eppure basterebbe imporre transazioni dirette, così da rendere palesi anche i relativi contratti, e le clausole dettagliate del pagamento “in natura” o per permuta.
Il giro d’affari, nella sola Africa, delle “armi usate” è di circa 10miliardi di euro l’anno.
Armi medie e leggere che sono responsabili al 95% di genocidi e massacri di donne e bambini (quando non forzatamente arruolati) e sono anche responsabili delle migrazioni forzate.
Quelle cioè che alimentano il mercato delle migrazioni irregolari, della clandestinità, del lavoro nero e della prostituzione.
Se consideriamo tutto questo, dovrebbe essere “un buon affare” intervenire in maniera drastica.
Certamente un affare migliore del mercato delle armi.