Il mio 1 maggio ricordando Guido Rossa
Ero molto indeciso su cosa scrivere per questo primo maggio, festa del lavoro, in un tempo in cui questa parola ha un sapore amaro, sospesa tra la sua mancanza e una profonda trasformazione della struttura e delle sintassi del concetto stesso di lavoro.
Un fatto sociale, il lavoro, non più chiuso e tutelato nei confini rassicuranti di singoli paesi e regole e convenzioni culturali e sociali, sempre più interconnesso ad una realtà complessa e articolata cui nessuno ci ha preparati.
Parlare di lavoro è parlare delle fondamenta della nostra Repubblica, ineluttabilmente, e quindi è parlare della base della nostra coesione, del nostro patto a stare assieme.
Ero indeciso se scrivere alla mia generazione, che è quella che dovrebbe essere il motore della nostra società, e che invece è sintomo del suo malessere, della precarietà esistenziale di un tempo sospeso, di una collettività che non ha una visione di un dopo plausibile, o se parlare alle altre generazioni, quelle che verranno e per cui siamo chiamati a lavorare, e quelle che ci hanno preceduto.
Ma su questo tema ho già scritto una lettera, che ripropongo in questa chiave oggi, e che non vorrei vedere strumentalizzata dalla propaganda politica di chi cerca spazi e fa proseliti in un vuoto conflitto generazionale, senza poi dare una prospettiva che non sia semplice sostituzione.
Meritiamo tutti in questo senso una declinazione più seria, più articolata, più rispettosa.
Poi mi è venuto in mente, in questo gran parlare di classe dirigente, di giovani, di alternativa, di crisi economica, di industrie e finanza, di senso di responsabilità… in tutto questo insieme di parole mi è venuta in mente l’immagine di un piccolo gigante della nostra storia.
Essere classe dirigente non significa essere “ai vertici” ma significa guidare mettendosi al servizio degli altri, e non al di sopra. Ed è questo il senso profondo della base di una classe dirigente: il sindacato.
Se in questo Paese, oggi, possiamo parlare di fabbriche, di industrie, di sviluppo, lo doppiamo prima di tutto a quei moltissimi operai che salvarono gli impianti industriali alla fine della seconda guerra mondiale, permettendo una rapida ripresa della produzione industriale negli anni cinquanta.
Questo Paese ha poi vissuto anni bui, in cui qualcuno giocava a incendiare gli animi dei giovani per fomentare una rivoluzione fatta di odio ed antagonismo, in cui qualcuno ritenne giusto prendere le armi e sparare… e quegli intellettuali che li nutrirono con le loro parole si sono sempre dichiarati “non responsabili”.
Se abbiamo ancora fabbriche di cui parlare, se ancora qualche industriale ha fabbriche da rivendicare, lo deve anche a uomini come Guido Rossa, un semplice sindacalista, un emblema di quella che vorremmo fosse “la classe dirigente”.
Guido Rossa fece due gesti eroici, che non imparò dalle persone, ma da quel rapporto straordinario e unico che aveva con le sue montagne… un po’ come se fosse allievo diretto e prediletto della natura.
Guido, che sfidò le Brigate Rosse, era sempre dalla parte degli operai, nel lavoro e fuori, e parlava con loro, perché essere un sindacalista significa rispondere, parlare, confrontarsi e servire. Ed è tanto più doveroso quando le inquietudini di un tempo di mezzo rendono indispensabile spiegare e frenare, e non certo infiammare gli animi con parole demagogiche.
Guido, che sfidò le Brigate Rosse, fu lasciato solo a firmare col suo nome e cognome una denuncia penale, che portò all’inizio della fine della colonna genovese delle Brigate Rosse.
Ecco, io questo primo maggio lo vorrei ricordare con Guido Rossa, con un piccolo uomo, una gran persona, un esempio della classe dirigente che vorremmo e di cui avremmo tanto bisogno.
Guido, che sfidò le Brigate Rosse, e lo fece per noi e per i “suoi” operai.
Guido, che sfidò le Brigate Rosse, è una di quelle persone per cui oggi ha un senso profondo dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.