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Michele Di Salvo
23 Apr

La mancanza di leader genera mostri

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  pd, partito democratico, politica, Partecipazione, giovani

La mancanza di leader genera mostri

Prima di tutto chiariamo chi è un leader, perché già metterci d’accordo sul termine sarebbe un buon inizio.
Un leader non è un capo, non è uno che comanda, non è uno che “sta bene in tv”, non è uno che ha appeal, non è uno con la battuta pronta… queste sono tutte cose che in un leader in qualche modo vengono di conseguenza, anche se in situazioni di mediocrità complessiva, anche solo una di queste caratteristiche possono facilmente fungere da attrattore.
Un leader, a differenza di un capo o di un semplice buon comunicatore, ha una visione, non un progetto o un programma. Un leader non convince, coinvolge. Non ha antagonisti, la sua vittoria è unire. Un leader non attacca, non si difende, semplicemente ascolta e poi sintetizza in maniera includente.
Un leader è ciò che sente, sente ciò che dice e fa ciò che dice. Sentire, dire e fare sono un’unica coerente direzione.

Ma perché abbiamo bisogno di leader e non dobbiamo confondere “uno dei capi” con il leader?
Perché al “capo” compete di gestire la realizzazione di un programma e di un progetto nel breve termine, nel quotidiano, ed ha un ruolo funzionale rispetto al progetto – nel nostro caso politico e prima di tutto sociale – che vogliamo realizzare.
Il leader è il portatore della visione di società e di modello di Paese, è ciò che vorremo tra cinque o dieci anni, che resiste alla singola soluzione del singolo problema del singolo momento contingente.
Ma soprattutto è un metodo per realizzare quel progetto e rendere concreta quella visione.


È però chiaro ed evidente che se noi per primi non abbiamo un’idea chiara di una visione di lungo periodo di quale paese vogliamo, di come lo vogliamo, di un interesse più alto e complessivo da realizzare, e non certo per noi, ma per le generazioni future, e per realizzarlo non siamo prima di tutto noi a essere disposti a mettere da parte la nostra visione del mondo di oggi, è difficile, se non impossibile, tracciare questa differenza.
E quindi ci accontenteremo di una battaglia tra capi, in cui vincerà il più bravo o il meno peggio.
In questo processo, non ci possiamo lamentare se la caratteristica principale della “guerra tra capi” è lo scontro tra fazioni, la visione miope di ottenere qualche piccola posizione in più, la strategia della microalleanza, il denigrare anche il proprio compagno di banco parlamentare, l’utilizzare qualsiasi occasione per rimarcare differenze e fare una gara di forza, l’uso dei riflettori per emergere, e se la logica dominante costante è quella del contarsi per contare.

Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto perché mancano i leader.
La risposta è semplice: perché lavoriamo (consapevolmente o meno) per il trionfo dei capi.
Se vi fosse una vera leadership emergerebbe la mediocrità di questa guerra tra bande, affiorerebbe il vuoto pneumatico di idee e di progetti, e cominceremo a considerare mediocre questo scontro che oggi consideriamo politico, ma che in realtà è semplicemente volgare e di bassa lega.
Perché trionfi la mediocrità è necessario tagliare ogni possibile via al ricambio interno, al confronto autentico, occorre impedire alle energie nuove di confrontarsi e di emergere, occorre ripetere che questo non è uno scontro personale, ma un confronto politico.
Ma dato che molti fanno parte di questo modo di fare politica, attraverso la logica delle componenti, saranno i primi, proprio dalla base, a impedire il cambiamento di queste logiche e sintassi e linguaggi.

Può sembrare che in fondo siano differenze da poco, in realtà continuare ad ogni sconfitta a dare la colpa alla componente che ha vinto è solo una condanna alla mediocrità. Continuare nel gioco “se avessimo candidato Tizio” o “se fosse stato segretario Caio” o discutere di chi ha votato chi e come in quella occasione, continuare nella logica di chi sia meglio, ci trasforma tutti nei ct del sabato che discutono più che sul gioco, e sul modello di calcio che fa bene a tutti, su questo o quel giocatore o arbitro… e ci ritroviamo poi come ogni lunedì se la nostra squadra del cuore perde, a discutere della colpa dell’arbitro, della sfortuna o del clima, e ci dimentichiamo del fatto che entrambi, il calcio e la politica, sono giochi di squadra!

Non è un caso che siano proprio i capi a ripetere che la parola leader è negativa, come se implicasse in sé l’idea di dittatura. Un assioma culturale che non sta in piedi nemmeno semanticamente.
Quella che abbiamo oggi, e ormai da un bel po’, è l’assoluta mancanza di una visione complessiva della società che vogliamo, e di qualcuno che questa visione la rappresenti.

Oggi il Partito Democratico vive il suo ennesimo momento di crisi e di trasformazione, in cui ci si da la colpa tra componenti, ci si divide tra buoni e cattivi, in cui si usa il confronto in direzione o precongressuale per fare ennesime conte di numeri, per passare su improbabili carri di temporanei vincitori, per ottenere qualcosa di personale, come ad esempio la conferma di una candidatura, e trasformare tutto in una caccia alla responsabilità personale, come se eliminando quel singolo capo si risolvesse anche il problema generale. E tutto questo ancora una volta distoglie l’attenzione dai contenuti e dalle loro mancanze.

Mentre perdiamo tempo, occasioni e fiumi di parole su Renzi, Bersani, Barca, Civati, Pittella, perdiamo occasioni per parlare al paese, le usiamo per mostrare una divisione tra persone e non visioni differenti della società che vogliamo e che non può permettersi oltre di perdere tempo.
Mentre facciamo inutili discussioni macroeconomiche non teniamo conto di un paese in cui le famiglie devono vendersi le fedi per acquistare cibo.
Mentre in questo Paese è urgente la battaglia per la democrazia, per le libertà civili, per un modello economico sostenibile, per un governo che possa essere credibile e possibilmente equo, perdiamo, tutti insieme, sei mesi per logiche di congresso in cui decidere chi è il più forte tra i vari capi, e il giorno dopo usare il nuovo capo come bersaglio interno.

Il voto è espressione numerica del consenso.
Non dovremmo mai dire che “le persone non ci hanno capito” ma assumerci la responsabilità attiva di dire “non abbiamo saputo dire” – ma credo che in questo momento la straordinaria perdita di consensi del Partito Democratico non sia arginabile con questo o quel nome, perché non è ai nomi che le persone danno consenso, ma al contenuto, ed il voto esprime un si (o un no) ad un modello di società proposto.
Se manca quella visione, a chi e a cosa le persone dovrebbero dare il proprio consenso?
Perché se chiediamo un voto “alla persona” allora dobbiamo entrare nell’ottica che questo tipo di offerta politica è già saturo: esiste Berlusconi che chiede un voto personale, ed esiste Grillo che chiede un voto personale di protesta, ed in più offre una massa parlamentare piatta, acritica, e priva di guerre tra bande (semmai giusto qualche scaramuccia).
Al Partito Democratico compete qualcosa di diverso e di sostanziale.
Ma è proprio a questo ruolo che oggi questo partito viene meno, e non è colpa dell’arbitro, del tempo, dell’avversario, delle circostanze, dell’altro… ma solo responsabilità precisa di questa classe dirigente e del modello e del metodo con cui viene scelta.

Ai militanti del Partito Democratico compete oggi un salto di qualità per se stessi e per il paese: azzerare, con tutti i mal di pancia del caso, le regole attraverso cui vengono scelti i dirigenti e formate le liste.
Culturalmente compete scegliere non tra diversi nomi come nel fantacalcio, ma tra visioni differenti della futura società possibile, e indicare quindi chi quella società è chiamato a descriverla e realizzarla. E tutto questo non è più rimandabile.
Ma non per una questione di esistenza del partito stesso, ma al di là del partito, per il ben del paese.
Almeno se siamo convinti che questo sia un grande partito di massa, di cui la nostra società non può fare a meno per stare meglio.

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