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Michele Di Salvo
07 Jun

La rete e Gezi Park

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  Gezi Park, blogosfera, socialnetwork, giovani, occupy, Turchia, Erdogan, Istanbul

La rete e Gezi Park

Cosa sta succedendo davvero in Turchia? Difficile dirlo, anche perché dovremmo conoscere un Paese enorme, con una storia estremamente complessa, sospeso tra oriente ed occidente e di cui spesso confondiamo anche quale sia la capitale. Istanbul non è la Turchia. È certamente la città più grande, più europea, più aperta, più turistica, ed in cui anche la società è un modello unico, proprio perché vi è un incrocio di popoli e culture straordinario. Istanbul è anche la città più giovane, più ricca, più dinamica, e, secondo i nostri parametri occidentali, quella con il livello di istruzione medio più elevato. Un paese di circa 80milioni di persone di cui 8 residenti tra Istanbul e la sua enorme regione periferica. Ad una laica e moderna Istanbul si pone quasi specularmente una Turchia prevalentemente rurale, conservatrice, con grandi sacche a orientamento politico religioso.
A tenere insieme il paese, avamposto Nato strategico in una regione limitrofa alle repubbliche ex-sovietiche, all’Iran, Siria e Iraq (giusto per declinare il contesto) un governo laico di centro, erede di quel contesto di oltre trent’anni fa in cui ex-militari trasformati in presidenti di improbabili repubbliche dal Pakistan di Musharraf all’Egitto di Mubarak.
Veniamo quindi, in questo contesto, ai fatti di queste ultime settimane.
Circa un anno fa l’amministrazione comunale di Istanbul ha approvato il cambio di destinazione del Parco di Gezi (in un quartiere prevalentemente universitario) in zona edificabile concedendo una maxi-lottizzazione per la realizzazione di un centro commerciale. La mobilitazione per salvare il parco, da parte di giovani, universitari, docenti artisti e intellettuali, andava avanti da un anno, pacificamente, sino a quando con l’arrivo delle ruspe poche centinaia di persone hanno deciso un’occupazione pacifica del parco. Ovviamente la protesta di Gezi va inserita in un contesto più ampio. Dopo dieci anni di crescita economica a doppia cifra la Turchia risente la crisi economica complessiva, la staticità politica non ha mai favorito un vero e proprio ricambio generazionale e i partiti più radicali non hanno mai avuto una vera occasione per avere voce in capitolo. Le spinte del contesto arabo sembrano aver offerto un’occasione forse irripetibile. Unire e cavalcare la protesta dei giovani di Istanbul, per una pressione internazione dei ben più ampia portata e di diversa natura, e soprattutto con diversi obiettivi. La scintilla contestuale alle proteste di Gezi è stata la proposta della regolamentazione del commercio di alcol e tabacco a livello nazionale, lasciando quindi meno spazio ai municipi e soprattutto alle diverse sensibilità locali sull’argomento: una normativa che molti hanno visto come restrittiva, ma che in realtà è la semplice introduzione di licenze commerciali per la vendita di superalcolici come ovunque, e un limite pubblico al fumo, come ovunque.
A livello mediatico quello cui assistiamo è una comunicazione su temi e parole d’ordine identica a quella delle proteste tunisine ed egiziane; un po’ troppo identiche, se teniamo conto della differenza storica, sociale e culturale tra questi paesi, e quindi tra queste storie. Sembra quasi che la comunicazione soprattutto in rete sia più orientata a legittimare una protesta verso l’occidente, ovvero sia strutturata per dare all’osservatore esterno quello che lui desidera che accada. Usare hashtag come #occupygezi è un modo per far rientrare quella protesta nel contesto dei vari occupy occidentali, quasi metterci un timbro, un marchio, che in qualche modo implichi simpatia, vicinanza, appartenenza. Si è parlato spesso della “onnipotenza” dei social al tempo delle proteste, anche se nessuno dopo queste affermazioni tanto preliminari quanto frettolose, si è preso la briga di ammettere poi, dati alla mano, che il ruolo dei social in questi casi è più di comunicazione “all’estero” che non di organizzazione interna. In Iran ad esempio si parlò di “movimento verde organizzato via Twitter” per poi scoprire che erano meno di 2mila i profili twitter registrati da cittadini iraniani e che oltre la metà di questi profili era di dissidenti o studenti residenti all’estero. La Turchia non è l’Iran, dove sono circa 400mila i profili twitter registrati (di cui 300mila residenti in Turchia e di questi 230mila a Istanbul). Anche in questo caso quindi il vero rischio è che questa protesta sia quella che noi vorremmo vedere, semmai continuando a riconoscere un ruolo straordinario alle dinamiche social, e che la grande quantità di informazioni che ci arrivano attraverso questi canali, siano più “un messaggio verso l’occidente” che non un “racconto interno”. E non è un caso che infatti le parole d’ordine, gli hashtag, i twitt maggiori, siano in inglese. Il 90 per cento dei tweet provenienti da quella zona, secondo il Social media and political participation laboratory contengono i tre hashtag fondamentali:#direngeziparki, presente in 950mila tweet, #occupygezi, 170mila e #geziparki, 50mila – e tuttavia non possiamo non rilevare come questo istituto sia anche finanziato dai NeoCon, ovvero quei conservatori che vedono nei social network lo strumento per combattere una seconda guerra fredda per l’esportazione di mercato democrazia e libertà, e per i quali un firewall è un novello muro di Berlino (per quanto smentiti anche semplicemente sul piano tecnologico).
Qual è il rischio di tutto questo? Semplicemente lasciarci abbagliare da ciò che vorremo che fosse.
Scordare con troppa leggerezza la storia recente, e non considerare che proteste giuste, concrete, legittime, sono state il grimaldello per partiti estremisti, religiosi, che sino a ieri avevano poco spazio e credibilità anche per interloquire con l’occidente. Ed anche qui il rischio è tutt’altro che remoto se consideriamo quanto avvenuto appunto in Egitto. Da ultimo però dobbiamo considerare che “chi governa alle volte impara”, e spesso impara alla svelta. Se in altri contesti la repressione è stata fortissima, e non si è tenuto in alcun conto l’effetto mediatico, anche semplicemente coesivo che possono offrire i social network, anche unendo fasce sociali e ragioni di protesta assolutamente diverse e distanti tra loro, in questo caso Erdogan ha agito in modo differente; ha chiesto scusa, ha allentato le tensioni, ed ha aperto ad una maggiore informazione, e questo togliendo di fatto il monopolio delle “news dalla piazza”. Il timore diffuso – non limitandosi a pochi twitt ma prendendosi la briga di navigare un po’ nella blogosfera turca - è un’escalation della violenza che possa far intervenire i militari, ostili ai partiti islamici, e finora gestiti e moderati da Erdogan. Un loro intervento sarebbe destabilizzante e resusciterebbe spettri del passato molto temuti soprattutto dai giovani. Se parli con loro, e solo gli propini l’immagine di una “primavera turca” la risposta è quasi unanime e la leggi in tutti i forum, “ho paura che qualcuno possa appropriarsi di una protesta che è nata dai cittadini e che si è svolta spontaneamente, senza nessuna organizzazione.”

La rete e Gezi Park

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